Scritture Le forme di comunicazione

 

3 Scrittura cinese e giapponese

4. Il sistema giapponese

  

Poema calligrafico del XVII sec. Scrittura corsiva giapponese e semicorsiva cinese.

Poema calligrafico del XVII sec. Scrittura corsiva giapponese e semicorsiva cinese.

La passione per la Cina
Lo sviluppo della scrittura in Giappone chiarisce assai bene come la storia della scrittura e il suo passaggio tra differenti culture siano un fenomeno particolare, in cui l’innovazione e la conservazione coesistono alla ricerca di un difficile equilibrio.
La passione dei giapponesi per la scrittura cinese ha origini antiche, ed è a un tentativo di emulazione culturale che va ricondotta la prima, indiscriminata adozione dei caratteri cinesi nel corso dei secoli V-VII della nostra era, cui si accompagnò anche l’introduzione della lettura cinese dei caratteri.
Le cosiddette pronunce sino-giapponesi, che sono adattamenti al sistema fonologico giapponese e perciò prive di molte distinzioni tra sillabe presenti nella lingua cinese, testimoniano di una colonizzazione culturale che si può definire totalizzante, poiché
coinvolgeva simultaneamente lingua e scrittura. 

 

Le difficoltà del kanji
Era naturale che questa passività dovesse scontrarsi con un’opposta volontà di riscatto, e che si tentasse di staccare i kanji  (il nome con cui sono noti in Giappone i caratteri cinesi, con un’approssimazione della pronuncia del termine cinese hanzi che li designa) dalla lingua di cui erano espressione e che per di più era diversissima dal giapponese.
A differenza del cinese, infatti, il giapponese è una lingua agglutinante, che modifica le proprie radici facendo arnpio uso di affissi che si fondono con la radice.
Assegnare a tutti i caratteri cinesi una lettura “nativa” non era una soluzione economica né auspicabile, e talvolta addirittura impossibile, perché la sudditanza al modello linguistico cinese continuava a sussistere, anche se ridotta al solo aspetto semantico.
Se, ad esempio, per il carattere cinese shân, ‘montagna’, il giapponese aveva la parola sinonima yama, questa dapprima era aggiunta come glossa alla lettura sino-giapponese e in seguito diventava la lettura preferenziale, o kun, del carattere stesso.

Quando non era possibile avere la traduzione adeguata di un carattere cinese complesso, a causa della diversità semantica fra le lingue, era necessario ripiegare su una lettura sino-giapponese, o lettura on; in questo modo, uno stesso carattere era letto come kun: se appariva isolato e come on quando era parte di un gruppo di segni che formavano parole più complesse.

 

Una pagina tratta dal Kojiki,

Una pagina tratta dal Kojiki, “antiche cose scritte”, storia antica del Giappone completata nel 712. d.C. Il testo principale è scritto in caratteri cinesi (kanji), ma accanto, in corpo più piccolo, cominciano a essere apposti i segni sillabici che trascrivono la pronuncia giapponese (kana), sviluppatisi poi compiutamente nelle due varietà katakana e hiragana all’inizio del secolo successivo.
© British Library, Or. Ms. and. p.b. 16047. b.10.vol.12 f.71, London

Il sillabario kana
Ecco perché il giapponese sviluppò una scrittura fonetico-sillabica (kana), modificando in senso corsivo la forma di alcuni caratteri cinesi e standardizzandone l’uso nel corso di secoli, sino alla creazione nel IX secolo dei due sillabari, chiamati hiragana (kana facile) e katakana (kana secondario).
La distinzione iniziale era relativa all’uso (hiragana per la scrittura informale e katakana per opere di tipo formale), ma oggi le due varietà si distinguono approssimativamente come il tondo (hiragana) e il corsivo (katakana) del nostro alfabeto.
Con ur’operazione di sapiente ingegneria fonetica, questi due sillabarì finirono per avere, alla fine dell’Ottocento, il numero attuale di 46 segni, utilizzati per trascrivere le 100 e più sillabe della lingua, grazie all’uso di segni diacritici e all’incastro sillabico ottenuto giocando sulle dimensioni relative dei segni.

 

Pagina callìgrafica a stampa, in stile erba Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II, Roma; foto G. Peyrot

Pagina callìgrafica a stampa, in stile erba.
Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II, Roma; foto G. Peyrot

 

 Pagina di un testo a stampa dell'inizio del Novecento che evidenzia la giustapposizione tra linee in kanji (in corpo più grande e ductus più posato) e kana (più piccolo e corsivo) Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II, Roma; foto G. Peyrot


Pagina di un testo a stampa dell’inizio del Novecento che evidenzia la giustapposizione tra linee in kanji (in corpo più grande e ductus più posato) e kana (più piccolo e corsivo)
Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II, Roma; foto G. Peyrot

 

 

Bai Joteki Luminosità, inchiostro su carta (1933).

Bai Joteki Luminosità, inchiostro su carta (1933).

La via della calligrafia
Ciò che caratterizza la storia grafica del Giappone, tuttavia, è la difficoltà di liberarsi dal peso del kanji; una difficoltà culturale, che non ha ormai quasi alcuna motivazione di tipo comunicativo.
Gli esempi di ambiguità prodotti nell’uso del kana dall’omofonia, e citati di frequente quale causa di conservatorìsmo, sono di certo insufficienti a spiegare la particolarissima situazione di uno scolaro giapponese che, ancora oggi, pur disponendo di due sillabari e talora addirittura di una superficiale conoscenza del romaji (la scrittura alfabetica, sempre più frequente nelle pubblicità e sui fumetti), è costretto ad apprendere almeno 2000 caratteri kanji per poter affrontare gli studi superiori, e in futuro per usare un computer.
 
La tradizione ha spesso più forza delle valutazioni utilitaristiche o delle politiche di riforma: una cultura che ha edificato attraverso un particolare sistema di scrittura tutta la propria riflessione filosofica e letteraria (il Kojiki, una delle prime storie del Giappone, significativamente giustappone i due tipi di scrittura, privilegiando il testo in kanji) e la propria calligrafia (lo shodô, ‘la via della calligrafia’, ha conosciuto nell’ultimo dopoguerra una popolarità mondiale) rimane legata a questa eredità di stile, la cui sovrabbondanza e le cui fluidità si adattano, come qualche studioso ha sostenuto, al modo in cui quella cultura pensa ed agisce.

 

Yanagida Taiun, Profondítà, inchiostro su carta, 135 x 133 cm (1983). L'autore così commenta il proprio lavoro: “Per me, all'età di ottantun anni, è stata come una sfida trovare lo spirito e la forza fisica necessari per scrivere un'immagine così grande e possente”.

Yanagida Taiun, Profondítà, inchiostro su carta, 135 x 133 cm (1983). L’autore così commenta il proprio lavoro: “Per me, all’età di ottantun anni, è stata come una sfida trovare lo spirito e la forza fisica necessari per scrivere un’immagine così grande e possente”.

Splendore in ogni direzione!, di Aoyama San'u, inchiostro su carta (1977).

Splendore in ogni direzione!, di Aoyama San’u, inchiostro su carta (1977).

 

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