Scritture Le forme di comunicazione
3 Scrittura cinese e giapponese
2. Caratteri e linguaggio
I perfetti ldeogrammi
Una delle caratteristiche della scrittura cinese che più sorprendeva i primi religiosi europei, penetrati nel paese tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, era che fosse possibile trascrivere dialetti molto diversi tra loro, in virtù di una presunta ‘identità di senso’, indipendente dalla pronuncia (un aspetto del quale il gesuita Matteo Ricci parla spesso nei suoi scritti, e dal quale trae origine l’idea, sviluppata nel corso del secolo XVII, di una scrittura internazionale ideografica).
L’idea che la scrittura possa essere un veicolo di comunicazione tra persone che non si potrebbero intendere verbalmente è rimasta un luogo comune afascinante, ma ha spesso condotto, in effetti, a fraintendimenti circa la natura di questa comprensione ‘per iscritto’.
Si dimentica spesso che la facilità con cui un abitante dell’Hunan può leggere e pronunciare, nel proprio dialetto, il testo redatto da un pechinese è conseguenza dell’idetica struttura morfologica delle due varietà di cinese e della conoscenza di un patrimonio comune di caratteri (e di elementi grafico-semantici in gran parte insensibili alla diversità dei sistemi fonologici).
Il cinese, infatti, è una lingua isolante, e le sue “parole” sono spesso radici invariabili monosillabiche alle quali corrisponde un singolo carattere.
La scrittura aderisce in molti modi alla struttura linguistica dei dialetti e, se in molti casi facilita la comprensione, in altri incece la complica, perché sono necessarie precisazioni e ripetizioni, che possono rendere meno immediata la lettura e confondere il lettore.
La maggior parte dei caratteri è una combinazione di due o più elementi semplici, uno dei quali ha sempre valore semantico generale, riferito al significato (la ‘chiave’), mentre l’altro, o gli altri, servono a specificarne la pronuncia (i ‘determinativi fonetici’).
Questa complessità rende necessaria, sta per lo scrivente che per il lettore, un’analisi altrettanto complessa della parola scritta; analisi che simultaneamente deve essere sia semantica (riferita al significato), che morfologica (riferita alla forma del carattere), che fonologica (riferita alla pronunica).
D’altra parte, la complessità è un utile punto di partenza per ricostruire derivazioni etimologiche o creare nuove ‘composizioni’.
Le regole grafiche
Anche le tradizionali classificazioni occidentali dei caratteri cinesi in cinque gruppi (pittogrammi, caratteri semplici simbolici, caratteri composti non fonetici, caratteri composti semantico-fonetici, caratteri composti ‘a rebus’) rappresentano gli esiti deil’esercizio di una razionalità analitica che tende a sovraimporre proprie preoccupazioni conoscitive (in particolare quelle relative a un rapporto biunivoco tra carattere ed elemento linguistico) alle strutture essenziali del sistema, cosi come risultano dal suo millenario sviluppo.
I cinesi, elaborando la loro scrittura, non ricercavano la perfezione funzionale (da cui sono lontane anche le ortografie storiche di molti tra i nostri alfabeti).
La notazione ideografica non è altro che l’applicazione di un insieme di regole grafiche imperative, e ubbidisce a criteri di organizzazione grafica per tratti tracciati in sequenze sempre determinate, il cui apprendimento rispetta una logica interna che prescinde dall’utilizzazione funzionale del segno per trascrivere sillabe e parole.
Se ciascun carattere dovesse essere appreso ‘in blocco’, come un’unità indivisa a sé stante, la scrittura cinese sarebbe un sistema non padroneggiabile dalla mente umana con la sua limitata memoria.
Quest’ idea spesso eccita la curiosità e alimenta la meraviglia, ma va dissolta assieme a tutti gli altri falsi miti da cui quest’universo di scrittura è stato avvolto.
Le chiavi del sistema
La caratteristica forse più eclatante del cinese, un’ulteriore differenza rispetto alle forme alfabetiche di notazione, è quella di avere sviluppato una razionalità grafica sistematica e non-arbitraria.
Un dizionario cinese, organizzato secondo la complessità grafica crescente delle “chiavi” (più di duecento, da quelle composte da un solo tratto, sino a quelle formate da ben quattordici tratti), segue un principio classificatorio che non ha nulla in comune con l’arbitraria semplicità del nostro alfabeto.
Chi legge dovrà per prima cosa riconoscere la chiave all’interno del ‘quadrato immaginario’ entro il quale è contenuto il carattere (entità omogenea in cui è impossibile distinguere a colpo d’occhio e senza addestramento gli elementi componenti), quindi contarne i tratti e cercarla sul dizionario, e infine ritrovare il carattere composto da cui era partito nella serie di caratteri, anch’essa ordinata graficamente, che condividono la stessa chiave.
Questo doppio binario, grafico e linguistico, tecnico e funzionale, lungo il quale si organizza il sistema, fa sì che i caratteri (che in quanto notazione dotata di una serie di elementi fonetici da tempo codificati potrebbero in astratto trascrivere altre lingue) siano inestrícabilmente legati alla lingua cinese.
L’uso degli ideogrammi da parte di altre comunità linguistiche (giapponese, coreana, vietnamita) è il risultato di un imperialismo culturale, e ha ben presto dato origine a scritture di forma composita, o ha finito per essere abbandonato, come è già accaduto in Vietnam e come sta irreversibilmente accadendo in Corea.
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