Scritture
 Le forme della comunicazione

 

Esposizione dal 9 ottobre al 5 novembre 1997 
Museo del Folklore di Roma 

 

Roma città della scrittura
Gianni Borgna
Assessore alle Politiche culturali del Comune di Roma

Dai lasciti del periodo romano fino a tutto il medioevo, dall’epigrafia rinascimentale di Sisto IV a quella, grandiosa, di Sisto V della fine del Cinquecento, dalle iscrizioni barocche fino alle targhe stradali in marmo, dalle lapidi commemorative agli editti, ai ricordi delle piene del Tevere, Roma è una città che appare interamente scritta.
Queste iscrizioni, non solo costituiscono parte integrante del patrimonio della città, ma permettono, caso unico al mondo, di leggerne, in senso letterale, tutta la storia.
Attraverso di esse, per oltre duemila anni, la città ha espresso l’orgoglio di essere il luogo dell’invenzione dell’alfabeto latino, strumento privilegiato della rappresentazione di sé e della diffusione della propria cultura.
Ora che Roma si arricchisce dei suoi rapporti con il mondo, si approfondisce anche una riflessione su ciò che la scrittura è stata e su ciò che la scrittura è.
Una comprensione più piena delle varietà assunte dalla scrittura, alle soglie del terzo millennio, ci consente di capire meglio anche la nostra storia; il confronto con altre culture e con a i suoi sistemi di trascrizione del pensiero ci fa apprezzare con più consapevolezza il caleidoscopio di stili e di varianti che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, e ci insegna a riconoscere la bellezza delle forme e la sapienza artigianale che le ha prodotte.
Le lettere di Giovan Battista Palatino, di Giovan Francesco Cresci e di Luca Orfei, sulla Porta del Popolo, sulla Fontana dell’Acqua Felice, sui basamenti dei grandi obelischi, ci appaiono più chiaramente nella loro magnificenza se siamo in grado di vederle con occhi più consapevoli; consapevoli che queste lettere rappresentano straordinari momenti di una particolare tradizione.
Questo viaggio attraverso le forme della comunicazione ci porta a soffermarci con più curiosità sul modo in cui le lettere, anche quelle dell’alfabeto che ci appare tanto usuale, sono state tracciate.
Ci accorgeremo che c’è sempre stato qualcuno che le ha tracciate, seguendo le proprie scelte e la propria intelligenza, e che le lettere sono sempre immagini, che comunicano molto più della convenzione fonetica.
Oltre il facile esotismo, gli ideogrammi cinesi, i glifi maya e i segni rituali africani ci appariranno meno misteriosi, perché qualcosa di quei modi di scrivere è intrinsecamente presente anche nella nostra cultura.
La scrittura e un’attività complessa e universale; se la capiremo meglio, capiremo qualcosa di fondamentale della persona umana.

 

Leggere e scrivere
Tullio De Mauro
Presidente dell’lstituzione del Sistema delle Biblioteche del Comune di Roma

Prima ancora di comunicare qualcosa agli altri, di riferirsi a qualcosa per renderlo noto agli altri, i viventi paiono avere avvertito il bisogno di produrre segni per comunicare se stessi, la loro esistenza e presenza.
La spinta a manifestarsi per segni, a fare segni per dichiararsi simili ad altri della stessa specie e, insieme, diversi da altri, opera, come oggi ci insegna bene l’etologia animale, alle radici stesse di ciò che chiamiamo vita.
Nella scala biologica essa sprofonda fino ai primi e primordiali gradini degli organismi unicellulari.
Negli animali superiori, quella spinta si traduce, anzitutto, nei segnali di territorio.
Negli esseri umani la stessa spinta opera anche nel loro tanto più complesso linguaggio.
Qualunque cosa diciamo, il nostro dire, anche se e quando non faccia esplicito riferimento a chi parla, alla ‘prima persona’, segnala in molti modi la nostra individualità, e cioè il nostro differire da altri e, insieme, il nostro essere solidali con una comunità particolare.
È come se ogni frase che diciamo portasse con sé, all’inizio (in verità, dall’inizio alla fine), la dichiarazione: “eccomi, sono qua, sono io che parlo questa certa particolare lingua”.
È un problema difficile stabilire quando, nei milioni di anni della loro storia evolutiva, gli ominidi hanno cominciato ad affiancare, a forme più elementari di comunicazione, forme di complessità e fattezze simili alle nostre lingue.
È ragionevole supporre, secondo molti studiosi di vari ambiti scientifici, che l’uso ragionato della mano e la produzione di strumenti, e di strumenti per foggiare strumenti, abbiano preceduto la spinta a costruirsi strumenti di comunicazione capaci non soltanto di far da segnale di territorio e non soltanto di trasmettere informazioni sul mondo. circostante, ma di dare notizie su esperienze passate, su situazioni remote e, soprattutto su prospettive future o possibili o, perfino, impossibili.

l miti greci associano più volte, nelle figure di Hermess, Prometeo e Palamede, la scoperta del fuoco, la scoperta della cottura del cibo, e quelle della parola, dei simulacri, delle lettere e dei numeri.
È in effetti assai probabile che la scoperta dell’uso del fuoco (fra quattrocentomila e trecentomila anni fa) abbia costretto i gruppi umani a compiere un grande balzo nello sviluppo delle loro già conquistate capacità progettuali e a dotarsi di strumenti comunicativi duttili e flessibili come è la parola, come sono le lingue.
Potere e dover prevedere che cosa avverrà una volta acceso il fuoco, che cosa si potrà e dovrà fare, aprì alla mente umana le porte del futuro.
E, con queste, le porte verso ansie e paure affatto nuove.
Cominciò a maturare allora la speranza di durare oltre il presente, quell’insieme di costumi, tecniche, riti e miti che garantivano la persistenza di se stessi, della propria memoria.
Qui, più che in assai più tarde ragioni economiche e giuridiche successive allo stanziamento di parte delle popolazioni umane, sta la radice del lasciare segni non delebili di se stessi: tacche, incisioni, graffiti, immagini.

Sulla importanza di queste tracce come antecedenti immediati delle scritture nate assai più tardi, pochi millenni prima di Cristo, richiamarono l’attenzione Leroi-Gourhan e, in Italia, Giorgio Raimondo Cardona, di cui in tutta questa mostra sono giustamente valorizzati gli studi troppo presto e dolorosamente interrotti.
E qui, in questi remoti segni, maturò per gli umani la scoperta di potere affiancare in qualche modo alla parola parlata, duttile e preziosa, ma fuggevole, una sua ben più durevole traccia scritta.
Ma essa, la traccia scritta, non meno della parola parlata, non vale solo per il suo riferirsi alle parole e alle cose che comunichiamo.
Vale insieme, anch’essa in ciò simile al parlare, come segnale di territorio, come traccia durevole della persona che ha scritto e della cultura cui appartiene.

Gli studi linguistici hanno faticato a lungo prima di conquistare la consapevolezza del fatto che la scrittura, ogni scrittura, non è una fedele rappresentazione delle realtà parlate delle lingue.
Ed è stato e resta ancora più faticoso il cammino per intendere, ciò posto, che, dunque, le scritture hanno una loro autonoma consistenza linguistica e una loro propria capacità espressiva.
Lentamente anche i linguisti stanno arrivando a capire le ragioni del comune sentire dei profani alfabetizzati, per i quali un certo modo di scrivere è lingua tanto quanto un modo di pronunziare o certe regole e forme grammaticali o un certo vocabolario.

Naturalmente è importante ricordare in ogni contesto, anche in questo, che, diversamente dal possesso del linguaggio orale, la conquista del leggere e scrivere, avviatasi da millenni per molte popolazioni, e anch’essa un processo lontano dall’essere concluso per tutti.
Ce lo ha rammentato costantemente nei suoi lavori di specialista della scrittura Armando Petrucci, per esempio in Scrivere e no, e ricordiamolo anche noi: si calcola pari ad almeno un miliardo il numero di totalmente analfabeti nel mondo.
In Italia, secondo i dati più recenti disponibili, i totalmente analfabeti che si dichiarano spontaneamente tali sono 1.132.000, pari al 2,4 della popolazione di oltre quattordici anni.
Ma ad essi vanno aggiunti in gran parte gli oltre tre milioni e mezzo di adulte e di adulti senza licenza elementare e alcune quote di persone che hanno imparato a leggere e a scrivere nell’infanzia, ma appartengono allo sterminato esercito (circa metà della popolazione) che dichiara di non leggere mai niente, né giornali né settimanali o fumetti né libri.

Nella sua nota introduttiva Antonio Perri individua le tappe maggiori del cammino compiuto da  linguisti e antropologi per arrivare a dare una valutazione adeguata della scrittura.
È un cammino ancor oggi tutt’altro che concluso.
Al suo termine si potrà vedere che, come questa mostra ci suggerisce, una tradizione scrittoria marca e individua e differenzia una cultura non meno delle lingue parlate cui si sovrappone e si mescola.
In questo senso la mostra aiuta e fa maturare quella sensibilità multiculturale che è un obiettivo primario di ogni efficace attività culturale e formativa. Ad essa l’Istituzione del sistema delle Biblioteche ha dedicato e dedica un suo specifico impegno continuativo, che ha già dato in passato frutti visibili.
Scritture è un traguardo importante e, ci auguriamo, un punto di partenza sollecitante per l’attività delle scuole.

 

Le ragioni della scrittura
Antonio Perri

Scritture è una mostra nata nell’ambito del progetto Biblioteche multiculturali dell’Istituzione del Sistema delle Biblioteche del Comune di Roma.
La mostra è stata concepita in vista del soddisfacimento di un’esigenza generale: dare  un’immagine il più possibile vasta, completa e non etnocentrica del complesso panorama di sistemi grafici utilizzati dalle culture umane per fissare i contenuti delle loro lingue.
Tale obiettivo si integra perfettamente al complesso delle attività che il progetto Biblioteche multiculturali  sta portando avanti nel corso di questi anni: una pedagogia attenta all’uso dei diversi mezzi espressivi, infatti, costituisce il necessario punto di partenza di quell’educazione al multiculturalismo cui si ispirano tutte le iniziative delle Biblioteche.

Vi sono, tuttavia, altre due ‘ragioni della scrittura’ presenti dietro le scelte espositive e la struttura argomentativa adottate, che convergono nel dar senso alla nostra iniziativa fondendosi nell’eredità – insieme scientifica e umana – di Giorgio Raimondo Cardona.
Una ragione scientifica, anzitutto: l’idea portante di carattere semiologico su cui si impernia la mostra è: quella dell’indissolubilità di principio tra un sistema di segni e le pratiche sociali, l’ideologia e il sistema di valori delle culture che lo adottano – aspetti che si manifestano in modo del tutto particolare nei testi grafici in relazione ai loro contesti enunciativi e d’uso.
Ora, l’impossibilità di scindere o ‘ridurre’ la funzione testo-contesto da cui ogni singolo messaggio scritto dipende è in definitiva un’istanza di metodo che è stato proprio Cardona a trasmettere ai suoi studenti come pure a parte del mondo accademico, istanza che dal 1981 (anno in cui apparve il pionieristico e ancora insuperato libro Antropologia della scrittura) ha trovato sempre più eco e consensi in Europa – basterà citare in proposito le opere del ‘saussuriano’ Harris.

Tout se tient, dunque, perché ancora a Cardona fa capo la ragione umana di cui si diceva.
Il progetto di questa mostra era nato infatti proprio dalle conversazioni tra Cardona e Giovanni Lussu, avvenute anni or sono, quando l’idea che la scrittura non fosse un mero ‘simulacro’ o un ‘surrogato’ della parole orale era ancora un tabù per il pensiero linguistico ‘ortodosso’ ma cominciava a circolare negli ambienti antropologici sulla scia della ricerca di Goody.
Quell’idea, che Cardona aveva prontamente raccolto e si apprestava a sviluppare e argomentare in polemica con la vulgata linguistica, era sentita quasi ‘per istinto’ dai più accorti e colti operatori del settore grafico i quali ‘vivevano’ la peculiarità tecnica e materiale dell’atto scrittorio; niente di strano, dunque, che proprio su quel terreno stesse per nascere una collaborazione purtroppo non trasformatasi allora in un prodotto finito.

Il progetto è oggi più che mai attuale, perché anche la semiotica sembra fare proprie le tesi di fondo che lo animavano – vale a dire che l’alfabeto non sia necessariamente la ratio segnica più naturale o intrinsecamente superiore, e che le indagini sull’universo delle scritture debbano abbandonare le riduttive ricerche di corrispondenze uno-a-uno tra unità linguistiche e unità grafiche per interessarsi piuttosto ai modi diversi con cui ciascun sistema ‘traduce’, bidimensionalmente contenuti condivisi e ‘linguisticamente esplicitabili’ (secondo la formulazione cardoniana).
In un momento in cui le dimensioni pragmatiche della comunicazione emergono quali problematiche dominanti della linguistica e semiotica di fine millennio, non è inutile ripensare alla dinamica del segno scritto secondo uno schema ‘contestualizzato’ del tipo se…allora: ciò che importa, per la lettura di un testo, è il locus fisico e antropologico della sua scrittura, proprio come un atto di parole assumerà una struttura testuale-grafica in funzione di intenti e modalità comunicative predisposte dalla cultura.
Lo studio ‘esterno’ della scrittura diventa chiave di volta per comprendere il funzionamento ‘interno’, tecnico dei vari sistemi; l’antropologia della scrittura diviene complemento  indispensabile di una grammatologia che senza di essa resta semplice ancilla di quella disciplina – la linguistica, appunto – che per molto tempo fu a sua volta considerata
ancilla filologiæ.
Il pensiero linguistico ha lottato a lungo per affrancarsi dalla sua servitù, e quando c’è riuscito ha dovuto ritessere la tela di un rapporto integrato con le dimensioni di quel ‘fatto sociale totale’, (la variazione, l’uso, la parole) che la langue saussuriana aveva messo (provvisoriamente, e programmaticamente) da parte; allo stesso modo, Cardona voleva ‘liberare’ la scrittura senza tuttavia strapparla al complesso groviglio di significati sociali e culturali di cui essa è veicolo.
Scritture intende essere un contributo nella direzione che aveva indicato.

 

Qualche parola
Giovanni Lussu

Come nel primigenio ouroboros, il serpente che si morde la coda sul palazzo di Guezo, le immagini alla fine di Scritture ne sono anche l’inizio.
Era il 1982, e non era ancora inverno. Francesca Lazzarato, Stefania Fabri e Paola Vassalli pensavano Il gioco della rima, la mostra sulla poesia per l’infanzia che si sarebbe tenuta due anni dopo, proprio al Museo del Folklore.
Parlando con Francesca (ero ancora stupefatto dal libro di Giorgio Cardona, Antropologia della scrittura, che dava ordine e senso a un magma informe), venne l’idea che mi occupassi del laboratorio di ‘poesia disegnata’.
In fredde piccole stanze della Biblioteca Rispoli, per settimane, il ‘seminario’, con Stefania e le altre bibliotecarie che avrebbero seguito il laboratorio: Mallarmé e Apollinaire, il codice segreto di Mattia Sandorf e le rune di Arne Saknussem, Gordon Pym e lo scarabeo d’oro; Klee e Steinberg, Léger e Alechinsky; le forme dello sconcerto e il regno dell’eccesso; le bismalah della calligrafia araba (“nel nome di Dio, il misericordioso, il compassionevole”); il mixteco signore Sole nella pioggia e la sua sposa, signora Ghirlanda di fiori di cacao; la lettera della Grande Elisabetta, da piccola, a Maria la Sanguinaria; caratteri pesanti come nubi spesse, leggeri come ali di cicala; uomo vede cavallo, sole sorge orizzonte; scrivere nella polvere, scrivere nell’acqua, scrivere nel vento.
Poi le bibliotecarie creano; con i ruvidi pennelli messi a disposizione dal Comune (o talvolta con i miei, ‘di visone’), scrivono, scrivono, scrivono.
Infine enter bambini: per cinque giorni, nella V B della Settembrini di via del Lavatore, si ripercorre l’intera storia della scrittura.
Si comincia, in palestra, con una proiezione di diapositive (che stimolano, imprevedibilmente, la curiosità sessuale dei piccoli spettatori); quindi si distribuiscono grandi fogli e grandi pennelli (grandi pennelli fanno gesti veloci, altrimenti l’inchiostro cade).
Primo giorno: scritture inventate, segni a piacere, codici segreti.
Il secondo giorno i bambini scrivono i propri nomi.
Poi, sino alla fine, il tema centrale del laboratorio: scegliere parole alle quali dare forme che ne raffigurino il significato.
Da qui queste immagini (‘albero’, ‘vento’), che superano gran parte di quanto fanno i professionisti della grafica; e da qui il mio orgoglio di cittadino per le biblioteche comunali, per le quali per anni ho provato un’affezione quasi eccessiva.

La parola inglese glamour, fascino e malìa, trascrive una pronuncia idiomatica di grammar, grammatica; associa, nell’immaginazione popolare prealfabetica, l’erudizione all’occulto, ed esprime la magia del controllo sul linguaggio e quindi sulla realtà.

Per i bambini, la scrittura è ancora questo: l’incantesimo di qualcosa che visibilmente rappresenta il mondo pur senza raffigurarlo.
L’unire la raffigurazione alla parola crea un equilibrio del tutto particolare tra due aspetti, che nel testo della mostra si sono chiamati analitico e sintetico: da una parte l’aderenza a modelli convenzionalmente stabiliti assicura la comunicazione; dall’altra l’individuale espressione di chi scrive consente invenzione e libertà.
Una sintesi incantata, fatta da piccole persone già ragionevolmente alfabetizzate, per le quali però la scrittura non è ancora l’arido strumento di semplice trascrizione che la nostra cultura si è ridotta a ritenere.
“Salvate i bambini!”, grida Lu Xun alla fine di un suo racconto; ma i bambini, se ne hanno la possibilità, ineluttabilmente crescono.
Norma e libertà, ordine e caos, regola e invenzione: non si può non accennare, tanto più a Roma, a Giovan Francesco Cresci, scriba della Biblioteca Vaticana nella seconda metà del Cinquecento, protagonista di una delle grandi rivoluzioni dello scrivere.
Cresci, il ‘nostro eroe’, con la definitiva adozione di una penna a punta, lunga e flessibile, e con l’introduzione di una forma di scrittura morbida, sinuosa e a lettere raccordate, quasi liquida (la si può intravedere sulla copertina di questo catalogo, dal trattato Il Perfetto Cancellarerco Corsivo), determina l’abbandono degli spigolosi stili precedenti, ottenuti con un penna più corta e rigida, con la punta tronca.
Attraverso i calligrafi francesi, il nuovo stile trova forma definitiva in Inghilterra, all’inizio del Settecento; e quello che noi chiamiamo ‘corsivo inglese’, generale immagine della scrittura fino al nostro secolo.
Immagini, immagini, immagini, avrebbe potuto dire oggi Amleto.
Il gran parlare, e scrivere, che si fa in questi anni di una ‘cultura delle immagini’, più o meno esplicitamente alternativa alla cultura della scrittura, ha solo due interpretazioni possibili.
O si parla comunque di scrittura, perché si parla di immagini che hanno acquistato valori più diffusamente convenzionali, analitici, e quindi più strettamente di comunicazione e di conoscenza; e allora bisognerà più che altro intendersi meglio e capire più a fondo.
Oppure tacitamente si aderisce a un modello inquietante di possibile futuro, nel quale in fondo non importa più che si sappia scrivere, ma e sufficiente (come nel Fahrenheit 451 di Bradbury e Truffaut) guardare le figure e saper assistere allo spot pubblicitario.
La scrittura è sempre immagine, non se ne può fare a meno; che la scrittura possa anche ‘parlare’ di più è lo scopo di questa piccola mostra.

 


A cura di

Comune di Roma
Assessorato alle Politiche Culturali
Assessore Gianni Borgna

Istituzione Sistema delle Biblioteche Centri Culturali
Presidente: Tullio De Mauro
Direttore: Maurizio Ceresa
Responsabile del progetto: Gabriella Sanna
Organizzazione: Valeria Bersacchi, Antonella Capasso, Anna Maria Coszach, Marco Di Pietro
Biblioteca Centrale Ragazzi: Letizia Tarantello, Laura Alegiani, Cristina Paterlini, Silvia Ronchetti

Museo del Folklore
Dirigente: Elisa Tittoni
Funzionario direttivo: Paolo Grassi
Coordinamento e visite guidate: Loredana Ciocca

AIAP – Associazione italiana progettazione per la comunicazione visiva
Presidente: Mario Piazza

 

Progetto a cura di
Giovanni Lussu
Antonio Perri
Daniele Turchi
 

Realizzazione Jumblies, Roma: Giovanni Lussu (progetto), Antonio Perri (testi), Daniele Turchi e Gabriella Peyrot (pannelli e catalogo), Fausto Zappaterreno e Flavia Breschi (cd-rom), Stefano Manfroni (coordinamento amministrativo).

Hanno collaborato: Alberto Lecaldano (coordinamento Aiap), Alfio Leonardi (allestimento), Susanna Martella (trattamento immagini), Angelo Monne (grafica), Diego Quacquarini (programmazione), Antonio Resta (editing), Federica Rossi (didascalie), Maria Saitta (ricerca diritti iconografia).

Reperimento e disponibilità del materiale iconografico: Giovanna Antongini, Centro camuno di studi preistorici (Emmanuel Anati), Giorgio de Finis (scritture asiatiche); Umberto Eco (scritture artificiali e inventate); Barbara Fiore (scritture africane); Accademia nazionale dei Lincei, Roma (Enrica Schettini Piazza); Biblioteca Nazionale centrale Vittorio Emanuele ii, Roma (Marina Battaglini); Institutt for Arkologi, Kunsthistorie og Numismatikk, Oslo; Istituto Italiano per l’Africa e l”Oriente, Roma (Mauro Maggi); Marzio Marzot (scritture africane); Missionari Saveriani (Padre Allevi); Museo archeologico di Reggio Emilia (Giancarlo Ambrosetti); Museo nazionale preistorico ed etnografico Luigi Pigorini, Roma (Claudio Cavatrunci, America; Egidio Cossa e Alessandra Antinori-Cardelli, Africa; Loretta Paderni, Asia Orientale; Marco Biscione, Oceania); Dario Novellino; Roberto Pellerey; Francesco Perilli; Giuseppe Saitta (scritture africane); Carlo Severi; Tito Spini; Universitetsbibliotek, Uppsala.

Contributo alla realizzazione: Silvana Amato, Angelo Arioli, Andrea Aureli, Cristiana Baldazzi, Nancy Barberis, Maurizio Caminito, Francesca Gleason; Gilberto, Gino e Roberto Iacobelli; Tommaso Lussu; Louis Marcelin; Susana Moraleda (speaker maya e nauhatl); Laura Pacelli; Fereydoun Rangrazi, Libreria Nima (speaker bismalah); Bruno Santoro; Alessandro Scavizzi; Vladimiro Settimelli; Francesco Toesca; Gabriele Turchi; Simone Zappaterreno.

 

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