Atti del convegno Le Genti di Monte Claro • Dal Neolitico al Ventunesimo secolo

 
 
Giuseppe Spiga

Origine del culto e della devozione per Santa Maria Chiara o di Monte Claro

 

Il culto e la devozione per Santa Maria Chiara (o de Clara, o de Claro, o de Claros oppure de Monte Claro)[1] ebbe origine nelle propaggini del colle omonimo, situato fra Cagliari e Pirri[2], il quale prese il nome per la presenza nel suo territorio di un cenobio intitolato proprio alla Madre del Salvatore, nella prima metà del XIII secolo[3].
Di questa costruzione, a tutt’oggi, si conserva qualche testimonianza a ridosso della via Santa Maria Chiara Vecchia, all’interno di un edificio rurale eretto nel Settecento[4].

Fig. 1 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Fig. 1 Cagliari, via Santa Maria vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Fig. 2 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Fig. 2 Cagliari, via Santa Maria vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Altre emergenze sono state individuate nella villa padronale, sicuramente realizzata nel medesimo secolo, in cima allo stesso colle[5]. In entrambe le costruzioni, infatti, ritroviamo degli elementi costruttivi tipici dell’architettura cistercense[6], introdotti per la prima volta in Sardegna in seguito alla politica religiosa portata avanti dal sovrano turritano, Gonnario de Lacon – (Gunale)[7], morto in Borgogna, nell’abbazia di Clairvaux, in odore di Santità, in un anno imprecisato ma successivo al 1153, dopo essere stato in pellegrinaggio in Terrasanta nel 1147 (al rientro del quale, nel monastero benedettino di Montecassino, ebbe modo di incontrare san Bernardo di Clairvaux) e aver fondato, in quegli stessi anni, l’abbazia di Santa Maria di Corte (o Caputabbas), presso Sindia, che donò ai monaci cistercensi[8].
Ma prima di andare avanti, vediamo per un momento la figura di questo sovrano che era profondamente attratto dalla santità e dal carisma dell’abbate di Clairvaux al quale era legato da comuni intenti e reciproca ammirazione[9].
Da una lettera che Bernardo scrisse nel 1146 al papa Eugenio III, nella quale approvava la scomunica comminata dall’arcivescovo di Pisa, Baldovino, al sovrano arborense, Barisone I de Lacon-Serra, apprendiamo, infatti, che l’abbate raccomandava Gonnario al pontefice del quale diceva ”… Porro Turritanus iudex quia bonus dicitur esse princeps sit vobis commendatus eta vobis manuteneatur…”[10].
E se andò in pellegrinaggio a Gerusalemme per visitare il santo Sepolcro, un impulso, sicuramente, dovette trovarlo nelle letture degli Itineraria[11] sui luoghi santi, in quei tempi ben conosciuti e frequentati, e a cui Bernardo attinse nel De laude novae militiae ad milites templi[12].
Ma – come è stato già ricordato – è proprio al rientro dal suo viaggio in Terrasanta che ebbe modo di conoscere, nell’abbazia di Montecassino, Bernardo con il quale ebbe diversi colloqui, anche se non sono da escludere precedenti contatti, come sembrano suggerire le poche fonti documentarie a noi pervenute[13].
Ed è proprio in quella circostanza, durante la quale, dopo aver confermato all’abbazia le donazioni dei suoi predecessori e fattane lui stesso una nuova (che prevedeva la cessione di terre colte e incolte, boschi, servi, etc.) che chiese a Bernardo di inviare in Sardegna alcuni monaci del suo Ordine[14].
Secondo una cronaca del tempo, il Libellus Iudicum Turritanorum[15], in quegli stessi anni furono inviati nell’isola 150 monaci, ma è più probabile che fossero solamente 12, un numero – questo – simbolico e sacro nella tradizione monastica benedettina[16].
La portata spirituale e materiale che questo avvenimento ebbe nella nostra terra fu di fondamentale importanza, anche per i risvolti politici, economici e sociali che comportava. Conseguenza immediata – lo ricordiamo – fu la fondazione dell’abbazia di Nostra Signora di Corte alla quale seguirono, in tempi rapidissimi, l’erezione di altri cenobi e chiese[17].
Il monastero venne consacrato nel 1149, forse alla presenza dello stesso Bernardo (che da circa un anno si trovava in Italia) in conformità alle prescrizioni della Charta Charitatis[18].
Pochi anni dopo, lasciato sul trono il figlio primogenito, Barisone, Gonnario di Torres, si reco a Clairvaux. Ma quando vi giunse, forse nel 1154, Bernardo era ormai scomparso da qualche mese[19].
Con tutta probabilità fu proprio questo illuminato e lungimirante sovrano a far conoscere ai monaci cistercensi la Passio sanctorum martyrum Gavini, Proti et Januari la quale venne inserita nel grande legendario di Clairvaux[20]. E proprio in questa abbazia Gonnario visse a lungo e in santità. E quando il monaco Erberto lo incontro, intorno al 1178, ebbe modo di ammirare la sua perfezione e il suo spirito di penitenza. Di lui, infatti, scrisse “…eius iam annum quinque peragens in disciplina suxepit ordinis assidue militat et expectat donec veniat immutatis eius …”[21].
Morì “cum fama sanctitatis” e fu sepolto nell’ingresso della stessa abbazia di Clairvaux[22].
Rappresentato sotto l’azzurro manto della Vergine, ancora oggi viene annoverato fra i beati dell’Ordine cistercense[23].
Quindi, fu proprio grazie a Gonnario di Torres che il culto e la devozione mariana, alle quali Bernardo aveva dato un impulso e un vigore straordinari (ricordato anche da Dante nel XXXIII canto del Paradiso) nella nostra isola assumono una nuova e forte connotazione, che trova spessore e vigore anche nelle intitolazioni attribuite alla Vergine che, significativamente, ci rimandano sempre alla matrice di provenienza: Clairvaux e che, proprio nel nostro territorio, si lega indissolubilmente ad uno dei colli cagliaritani più belli: Monte Claro[24]. Non solo, ma anche alle sue immediate propaggini dove, ancora oggi, ritroviamo una serie di indizi toponomastici e agiotoponomastici che, inequivocabilmente, ci indirizzano ancora una volta alla Clairvaux di Bernardo e al culto mariano da lui ampliamente diffuso: Monte Claro, Villa Clara, Valle Clara, Via Santa Maria Chiara Vecchia e Nuova, Villa Sancta Maria de Clara (o de Clara), oppidam Sanctae Mariae de Claro, iglesia rural de Sancta Maria Clara, hermita de Sancta Maria de Clar, viña, camino, lagar, zimetery, ortu, campo di Santa Maria Clara, ecc..[25].
Ma vediamo con più attenzione chi era Bernardo di Clairvaux[26].
Per Ottone di Frisinga, zio di Federico II di Hoenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero, era un “oracolo divino”. Per Oddone de Deuil, cappellano del re di Francia, un “santo” già in vita. Lui si definiva la “chimera” del suo secolo, attratto com’era dalla vita monastica, ma anche richiamato da quel “mondo” che aveva lasciato vestendo l’abito bianco dell’Ordine benedettino dei cistercensi[27].
Era piccolo di statura ma – dicono le cronache – destinato ad elevarsi su tutta un’epoca per svettare fra i giganti di ogni tempo[28].
Nato nel 1090 a Fontaine-lès-Dijon, un piccolo abitato vicino a Digione, in Borgogna, era terzogenito (su sette) di Aleth (o Aletta) di Montbard e del nobile Tezzellino (o Tescelino) il Sauro. Mentre i fratelli, nel rispetto delle consuetudini del tempo, si avviavano sulla strada delle armi, Bernardo intraprese gli studi a Châtillon. A diciasette anni perse la madre e a ventitré entrò a Citeaux, un’abbazia fondata pochi anni prima da Roberto da Molesme (figlio di Teodorico ed Ermengarda del ramo Maligny, dei conti di Tonnerre) ideatore e promotore dello stesso Ordine cistercense[29].
L’arrivo di Bernardo fu dirompente: il novizio, entusiasta, aveva convinto a seguirlo altre trenta persone, fra parenti e amici. Iniziò, così, un’avventura umana, personale e collettiva, destinata a propagarsi sino agli estremi confini del mondo cristiano e anche oltre[30].
Nel 1115 fondò e divenne abbate dell’abbazia di Clairvaux, che era la terza filiazione del monastero di Cíteaux. Alla sua morte, nel 1153, l’Ordine contava ben 345 abbazie sparse in tutta Europa, di cui 167 erano filiazioni dirette di Clairvaux e 70 (come quella di Chiaravalle, alle porte di Milano) erano state fondate da Bernardo in persona[31].
I circa diecimila monaci che, allora, costituivano l’Ordine, erano ritenuti un vero e proprio “esercito di pace” anche perché contribuivano alla civilizzazione dell’Europa, organizzati in una sorta di “multinazionale” religiosa, gestita grazie ad una speciale esenzione: in teoria dipendevano dal papa e non dal vescovo locale. In pratica, tutte le decisioni erano prese dal Capitolo generale dello stesso Ordine[32].
Bernardo non ne fu “tecnicamente” il capo, ma l’anima instancabile e la figura di spicco per tutta la vita, nonostante una malattia allo stomaco che lo colpì nel 1117, a soli 27 anni, e che lo portò alla morte -come precedentemente è stato ricordato – nel 1153[33].
Già ai suoi tempi era famoso: i suoi scritti (trattati, sermoni, opuscoli) e le sue lettere (oltre 500) circolavano in tutta Europa. Ancora oggi si conservano più di 1500 manoscritti, un numero enorme che contengono gran parte delle sue opere[34].
Tratto della grazia e del libero arbitrio, dell’umiltà, della superbia e dell’amore. Ma viene ricordato, soprattutto, per una breve ma singolare opera sulla quale abbiamo gia accennato: L’elogio della nuova cavalleria, scritta in favore dell’Ordine religioso-militare dei Templari, fondato nel 1119 da Ugo di Payns e Andrea di Montbard, suo zio materno[35].
Bernardo fu un convinto sostenitore di questi cavalieri preposti alla difesa dei pellegrini in Terrasanta dai pericoli arabi e dai Berberi islamizzati. Una novità dell’epoca, tanto da coniare la nota espressione del “malicidio”. In pratica, il templare che avesse ucciso un malfattore non avrebbe commesso un “omicidio” ma, appunto, un “malicidio”.
Il termine era nuovo e azzardato, ma il concetto antico: questi cavalieri, infatti, combattevano una duplice battaglia, un’esterna contro il nemico, l’altra interna contro il maligno. Il templare, pertanto, si impegnava con animo retto in una battaglia giusta. Era, insomma, il concetto della guerra santa, condotta con uno scopo legittimo da chi ne ha il diritto-dovere, e non certo un indiscriminato invito al massacro dell’infedele. E per convincersene basterebbe leggere ancora qualche riga del testo di Bernardo: “non si dovrebbero uccidere neppure i pagani qualora ci fosse una maniera diversa per impedir loro di opprimere i fedeli”[36].
Ma la vera grandezza dell’abbate di Clairaux non è quì.
A partire dal 1130 lottò con forza per ricomporre uno scisma apertosi nella Chiesa, e nel 1138 convinse l’antipapa Anacleto Il a sottomettersi al pontefice legittimo, Innocenzo III. Si oppose con successo e con una certa fermezza all’insolenza speculativa di Pietro Abelardo, il discusso filosofo-teologo parigino che in quei tempi aveva rivoluzionato l’approccio alle verità della fede. Predicò contro gli eretici, ritenendo che dovessero essere ricondotti alla fede “non con le armi, ma con argomenti”. Difese gli ebrei con la parola e con l’azione quando – proprio durante l’organizzazione della seconda crociata, di cui era il predicatore ufficiale – subirono dure violenze. E per questa sua presa di posizione fu pubblicamente ringraziato dal rabbino di Bonn. Aiutò Ildegarda di Bingen; diede all’arte cistercense un carattere semplice e austero che affascina ancora oggi proprio per la sua marcata severità; compì un numero incredibile di miracoli, tanto da essere quasi assimilato a un novello Cristo[37].
Per suo impulso si diffuse in maniera straordinaria – lo ricordiamo ancora – la devozione alla Madonna. “Stella del Mare”, cui dedico moltissimi sermoni di lode e intitolo numerose chiese e abbazie[38].
Ma il vertice della sua esperienza umana fu l’unione mistica con Dio. Pur sapendo che l’eterna e perfetta felicità si avrà solamente nel Paradiso[39].
Consapevole di questa certezza Bernardo ripeteva che è la piena comunione con Dio, grazie alla quale l’uomo, può fondere la sua volontà con quella del Padre: “Come una piccola goccia d’acqua, versata in una grande quantità divino, sembra perdersi completamente, sino ad assumere il sapore e il colore del vino stesso; come un ferro, messo nel fuoco, diviene del tutto simile al fuoco… così, allora, sarà necessario che nei santi ogni sentimento umano si fonda e si riversi completamente nella volontà di Dio”[40].
L’uomo, proprio perché sua creatura tende quasi a “svuotarsi”, ma non per essere nulla, anzi, per assumere una nuova “forma”, per “conformarsi” e “concordare con il Creatore: “Vivere questa esperienza – sosteneva – è essere deificati”. E per iniziare questo percorso l’uomo deve umiliarsi, cioè riconoscere di non potersi salvare da solo. Può, così, cercare Dio, perché un bene infinito ci attira: “Credo – affermava ancora Bernardo – che neanche quando lo avremo trovato smetteremo di cercarlo. L’evento felice della sua scoperta non ne spegne il desiderio, ma lo acuisce. Il culmine della gioia – spiegava – è come un olio, perché il desiderio è una fiamma. Ci sarà pienezza di letizia, ma il desiderio non avrà fine e perciò neppure la ricerca”[41].
Ecco la forza dell’amore: il conseguimento della meta non esaurisce la ricerca, ma – nel soddisfarla – la rigenera: “Sei buono, o Signore con l’ani ma che ti cerca. Come sarai con l’anima che ti troverà? Ma proprio in ciò sta la meraviglia, che nessuno può cercarti, se non colui che ti abbia già prima trovato. Tu vuoi, dunque – ripeteva Bernardo – essere trovato per essere cercato, ed essere cercato per essere trovato ancora[42].
E da questo assunto emerge la sua granitica fede che raggiunge le vette più sublimi e sulla quale Bernardo ha sempre basato il suo pensiero e la sua vita in continua tensione verso Dio. Un messaggio, che – si può dire – giunge anche a noi, sempre supportato da una straordinaria devozione mariana che ha continuamente pervaso e contraddistinto anche l’esistenza dello stesso Ordine[43].
Un messaggio che -vogliamo credere- sia riecheggiato anche nel cenobio di Monte Claro, dove la devozione mariana, sicuramente, non è mai venuta meno, giungendo sino ai nostri giorni[44].
Quindi, furono ancora una volta i monaci Cistercensi, nei primi anni del XIII secolo, sulla scia di Gonnario di Torres che, quasi novant’anni prima, aveva aperto il suo regno a quest’Ordine benedettino, a introdurre nel nostro territorio il culto e la devozione per la Vergine con il titolo -come abbiamo già detto – di Sancta Maria de Claro (o de Clara)[45].
Le vicende sono note. Nel maggio del 1236 la regina-reggente del regno di Calari (uno dei quattro stati sovrani che nel Medioevo dividevano la Sardegna) Agnese de Lacon-Massa e suo marito Ranieri della Gheradesca, conte di Bolgheri e marchese di Massa, con le stesse modalità già adottate da Gonnario di Torres, cedevano alla chiesa di San Pantaleone di Lucca, allora in possesso dell’Ordine cistercense, e più precisamente ai monaci Iacobo e Viniano, la “villa di Fluministepiti”, già “ecclesia Sancta Maria de Flumine Tepidus”, nel Cixerri, con tutte le sue pertinenze e adiacenze, terre colte e incolte, pascoli, acque, salti, animali e servi ”… pro remedio animarum nostrarum et parentum nostrorum et nostrorum peccaminum remissione…” Non solo, ma anche ”… ex literis deprecativis missis a venerabili domino Gregorio papa nono…”, stabilendo, fra l’altro, che i monaci potessero avere gli strumenti necessari per effettuare le diverse attività agricole e vivere adeguatamente al loro rango[46].
Oltre a questo abitato, i benedettini ebbero in donazione, dagli stessi sovrani, anche il permesso di poter ”… porco et alias […] bestias pasci facere tantum…”. Inoltre, venivano ceduti tutti i loro diritti e le loro prerogative affinché i religiosi potessero tutelare, contro chiunque e in qualunque circostanza, le prerogative acquisite. In quel frangente entrambi i sovrani riservavano per sé stessi e i loro eredi e successori, oltre ad un “dazio” annuale ed un salto denominato di Perignano, in prossimità della stessa villa di Flumentepido, anche la facoltà di esercitare la giustizia nei territori appena donati[47].
E, sempre in quella circostanza, sicuramente, entrarono in possesso anche del colle di Monte Claro, con tutte le sue adiacenze, nelle cui falde fu eretto un cenobio che – lo ricordiamo – diede il nome allo stesso colle, a ridosso del quale si sviluppò Villa Sancta Maria de Clara (o de Claro) il quale, intorno al 1315, sappiamo che godeva di un relativo benessere nonostante alcuni suoi abitanti erano sottoposti alla cosiddetta ”prestanza” imposta da Castel di Castro di Cagliari, nucleo originario dell’odierna città di Cagliari, allora pisana[48].
Quindi, la nascita del culto e della devozione per Santa Maria Chiara è da ricollegarsi proprio a quel momento storico che coincide con il massimo sviluppo della presenza dell’Ordine cistercense in Sardegna (ormai presente anche in diverse altre località dell’isola) voluto e concepito da Roberto da Molesme[49] nel 1098 e al quale San Bernardo di Chiaravalle, poco tempo dopo, avrebbe dato -lo ripetiamo- un impulso e un vigore straordinari[50].
Ma è, soprattutto, nelle fonti documentarie conservate nel prestigioso Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona (specialmente per gli anni compresi fra il 1322 e il 1584) che ritroviamo le indicazioni più significative su Monte Claro, le quali, in modo chiaro e inequivocabile, ci rimandano sempre alla Clairvaux di San Bernardo e al culto Mariano da lui ampiamente rinnovato e diffuso[51].
E sono sempre queste carte a dirci che il cenobio, sorto nelle appendici del colle cagliaritano, per motivi a noi ignoti, era ormai ridotto a “romitorio” già nel 1442[52].
Una risposta per individuare le cause che portarono a questa decadenza sicuramente la si potrebbe trovare negli avvenimenti che coinvolsero l’abitato subito dopo il 1358, anno in cui, ormai ridimensionato a oppidum[53], entra in un lento ma graduale processo di spopolamento probabilmente già iniziato – come precedentemente ricordato – intorno al 1342 e che, alla fine del XVI secolo, avrebbe determinato la sua definitiva scomparsa, anche se le fonti documentarie ci dicono che era già ”enderrocatat” nel 1385 e “distrutto” nel 1442[54]. Infatti, successivamente a quegli anni, dell’insediamento non si ha più nessuna notizia, se non in qualche cronaca, al contrario della chiesa che è documentata ancora per qualche anno, ma destinata anch’essa, di là a poco tempo, a scomparire del tutto[55].
A questo proposito ricordiamo che recenti acquisizioni relative ad alcune carte conservate sempre negli archivi iberici, ci suggeriscono ulteriori e precise valutazioni sulla scomparsa dell’abitato. Infatti, queste fonti ci dicono che gli abitati dell’hinterland cagliaritano: Cepola, Sanvetrano (oggi scomparsi), Pirri e, in modo particolare, Santa Maria Clara erano costretti -come abbiamo già visto – a prestare servizio nelle vicine saline[56]. Per evitare defezioni, nel 1342, il sovrano catalano, Pietro IV aveva dato disposizioni affinché fossero delimitati i confini dei loro territori. Inoltre, per impedire agli abitanti di trasferirsi in altre località e, quindi, sfuggire a questo duro obbligo, cercò di portare avanti una politica di popolamento. Ma furono iniziative destinate a cadere nel vuoto perché i residenti continuarono ad allontanarsi determinando, nel tempo, l’inevitabile scomparsa di questi insediamenti dei quali sopravvisse soltanto Pirri[57].

Fig. 4 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Fig. 4 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

 

Fig. 3 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Fig. 3 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Nuovi indizi, invece, ci portano a credere, per quanto riguarda il primo impianto dell’antico cenobio, che la chiesa, ormai, fosse ridotta in pessime condizioni prima del 1748-1749, se non addirittura ad una cava a cielo aperto, e i suoi conci riutilizzati in altre costruzioni come avvenne, fra l’altro, nella parrocchiale di San Pietro Apostolo in Pirri, la quale, proprio in quegli anni, veniva sottoposta a dei radicali lavori di rifacimento, e dove, in anni relativamente recenti, si è avuto un preciso riscontro[58].
In realtà, il fatto che la chiesa, quando viene menzionata per la prima volta, in un lascito del 1442, è denominata ”romitaggio” apre diverse interpretazioni e problemi di difficile soluzione. Infatti, a quale edificio si riferisce? Evidentemente, non al primo impianto medioevale.
Quindi, presumibilmente, ad una costruzione successiva che, in un momento imprecisato, avrebbe sostituito la fabbrica più antica, magari in un sito diverso, ritenuto più idoneo. E dal momento che le fonti documentarie ci dicono che nel 1385 l’abitato era “enderrocatat[59] e, sempre nel 1442, ”distrutto”[60] questa ipotesi appare ancor più plausibile. A questo punto, infatti, si potrebbe ritenere che anche la stessa chiesa poteva aver subito una sorte analoga. E se dovessimo supporre che sorgeva in corrispondenza dell’ex cascina Vinalcool[61] dove – come è stato già accennato – si conservano, ancora oggi, degli interessanti elementi architettonici di chiara matrice cistercense, facendoci ipotizzare che proprio in quel sito poteva trovarsi l’antico cenobio medioevale, è possibile ritenere che la “hermita de Sancta Maria de Clar”, o “de Santa Maria Clara”, oppure “iglesia de Sancta Maria Clara”, o “de S. M.a Clara”, o “iglesia rural de S.ta M.a Clara”, o “de Santa Maria Clara”, oppure “nuovo oratorio”, o “ex cappella di Santa Maria Chiara”[62], ricordata nei secoli successivi dalle carte d’archivio, altro non sia che la stessa chiesa ricostruita, in un luogo diverso da quello in cui era stata realizzata in un primo momento. Inoltre, ricordiamo solamente che l’intera area circostante l’ex cascina Vinalcool, in un periodo imprecisato, e per motivi a noi sconosciuti, fu coinvolta in un lento ma inarrestabile processo di degrado che determino un impaludamento dell’intera zona, così come in altre località limitrofe alle falde del colle di San Michele, sino a tempi relativamente recenti. Una situazione – questa – evidentemente, venutasi a creare solo in seguito allo spopolamento del territorio e, quindi, al suo completo abbandono, dovuto proprio alla definitiva scomparsa dell’abitato[63].
Ma è nella seconda metà del XVI secolo, e, più precisamente, in un atto notarile del 1553, che si fa riferimento esplicito alla “iglesia de Sancta Maria Clara[64].

 

Fig. 5 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool, la cosiddetta "cappella" (foto G. Spiga)

Fig. 5 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool, la cosiddetta “cappella” (foto G. Spiga)

A questo punto, tutto si pone ancora una volta in discussione anche perché, pochi anni dopo, sappiamo da una carta conservata nell’Archivio Arcivescovile di Cagliari[65], che il simulacro di Santa Maria Chiara, nel 1602, risulta custodito nella chiesa di San Pietro Apostolo in Pirri con un suo retablo, forse, lo stesso del quale si è conservato solamente lo scomparto della ”Madonna del Silenzio”, ascrivibile al XVI secolo, e, attualmente, conservato nella chiesa di San Carlo Borromeo, ma originariamente allogato nella cosiddetta “cappella” della vicina cascina Vinalcool[66].

Ma per quale motivo il simulacro – come suggerisce la stessa fonte documentaria – e gli arredi vengono conservati nella chiesa di San Pietro Apostolo?
Si parla ancora di ”iglesia” nel 1633[67]. Nel 1630 viene ricordata la morte di un eremita[68]. Invece, nel 1719, ritroviamo altri due eremitani, uno dei quali deceduto in quello stesso anno[69].
In un anno imprecisato, fra il 1759 e il 1763 l’edificio, ormai ridotto come quello di “San Nicolas in Vidrano, sin puertas y con poco tejado” viene sconsacrato dall’Arcivescovo di Cagliari, Monsignor Tommaso Ignazio Maria Natta[70]. Ma quale? La chiesa o il “romitorio” oppure, come suggeriscono le stesse carte d’Archivio, i loro ruderi? Infine, da quale costruzione provenivano i conci trasportati nella chiesa di San Pietro Apostolo in Pirri per essere “impedidas en el nuevo oratorio”?[71]

 

Fig. 6 Pirri, parrocchiale di San Pietro Apostolo, festa di Santa Maria Chiara (foto G. Spiga)

Fig. 6 Pirri, parrocchiale di San Pietro Apostolo, festa di Santa Maria Chiara (foto G. Spiga)

Ma al di là di questi ragionevoli dubbi che le fonti documentarie, attualmente, non contribuiscono a chiarire, così come per quanto concerne l’esatta ubicazione del luogo di culto medioevale, un sistematico studio del territorio, un suo monitoraggio o l’analisi delle emergenze ancora riscontrabili nell’area circostante, oppure, meglio ancora, dei mirati saggi di scavo, potrebbero dare qualche soluzione al problema, anche perché -come è stato precedentemente accennato- non mancano degli elementi che ci suggeriscono nuove valutazioni e interessanti ipotesi[72].
Ma a prescindere da queste considerazioni, che esulano dal tema che ci siamo proposti, possiamo dire che conseguenza immediata di queste vicende fu che Pirri divenne in senso lato l’erede diretto dell’antica “Villa Sancta Maria de Clara”. Non solo, ma anche gelosa custode del culto e della devozione per la Madre del Salvatore che, per vie lunghe e tortuose, è giunto sino ai nostri giorni e dove, dopo quasi otto secoli, continua ad essere viva testimonianza di una fede che non è mai venuta meno.

 

 

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