Atti del convegno Le Genti di Monte Claro • Dal Neolitico al Ventunesimo secolo

 
 
Carlo Pillai

Il culto di S. Maria Chiara nella tradizione popolare.

 
La festa di S. Maria Chiara era tradizionalmente una delle più frequentate di tutto il Campidano di Cagliari[1] e di certo la più importante di Pirri, eppure la chiesa parrocchiale di questo centro era intitolata a S. Pietro, in analogia del resto con tanti altri paesi dell’area meridionale della Sardegna: si vedano i casi di Monastir, Nuraminis, Settimo, S. Pietro Pula, oggi Villa S. Pietro, senza contare le numerose chiese dedicate al medesimo santo, in parte campestri, come nel caso di Quartu, Capoterra e Gergei. Insomma si assiste ad un caso classico di affollamento di un culto in una zona, caratterizzata da un’economia prettamente agricola o, meglio ancora, più specificamente a vocazione cerealicola[2]. Non per nulla il giorno della festa del santo cade il 29 giugno, nel periodo delle messi ed è come se egli venisse messo a loro tutela. Pur non rivestendo di per sé caratteri agresti in ogni caso si tratta di un santo importante (essendo il capo degli apostoli), che corrisponde ad un’attività importante, anzi fondamentale, quella della produzione delle derrate alimentari, da qui il collegamento [3]. Tuttavia col passar del tempo si svilupperà la tendenza ad individuare come patroni dei contadini santi più direttamente riconducibili a questo ramo di attività, come eloquentemente dimostra l’esempio di S. Isidoro, che, facendo leva precipuamente sulla sua qualifica di bracciante agricolo, e quindi rappresentativo della categoria, si imporrà in età spagnola, subito dopo la sua canonizzazione, avvenuta nel 1622. E il fenomeno riguarderà anche Pirri, al pari di molti paesi del Campidano.

Altrove, come ad esempio nella diocesi di Suelli, S.Pietro, al quale inizialmente era intitolata, verrà scalzato da un santo locale, S. Giorgio, primo vescovo del luogo. Tutto cio sta a segnalare l’avvento di un patriottismo municipalistico, comune anche ad altre realtà, come la diocesi di Bologna dove S. Petronio diventerà patrono sostituendo il vecchio titolare, rappresentato ancora una volta da S.Pietro. Se S. Giorgio resta circoscritto a determinate aree soltanto, S. Antioco, al contrario, si mostra più universalmente distribuito in tutta la Sardegna centro-meridionale quasi come santo nazionale[4] , in particolare in riferimento alle masse contadine, se è vero che egli veniva invocato anche contro la malattia degli animali, ed è per questo che , come ebbe a scrivere Joseph Fuos, anche i gioghi dei buoi partecipavano festosi alla processione[5]. E ancora una volta Pirri vi sarà interessato, come i vicini paesi di Quartu e Monserrato.
Molte sono le testimonianze al riguardo, fra le quali basterà menzionare quella del Padre Napoli, risalente al XVIII secolo, il quale espressamente citerà la festa di questo paese[6]. Notevole in proposito anche quella che i campidanesi tributavano al santo sulcitano nell’ambito dei pellegrinaggi che avevano come meta la basilica cagliaritana di Bonaria[7].

Fig. 1 ARCHIVIO COMUNALE DI CAGLIARI, Registro delle Deliberazioni di Consiglio, Vol. 2, c. 51., Consiglio Comunale di Pirri, delibera del 2 luglio 1857.

Fig. 1 ARCHIVIO COMUNALE DI CAGLIARI, Registro delle Deliberazioni di Consiglio, Vol. 2, c. 51., Consiglio Comunale di Pirri, delibera del 2 luglio 1857.

Non stupirà pertanto che il Consiglio Comunale di Pirri disciplinando in una delibera assunta il 2 luglio 1857[8] (fig. 1 – 2) lo svolgimento delle feste e delle questue relative, avesse annoverato fra le tre maggiori quella in onore di questo santo. Le altre due erano costituite da S. Luigi e da S. Maria Chiara: l’uno, di origine più recente, trova le sue radici negli orientamenti devozionali propri della Controriforma cattolica e si sviluppò in molte zone della Sardegna, specie nel Nuorese e nell’hinterland cagliaritano, forse in alternativa al mito della balentia, volendosi additare in lui un nuovo e tutto diverso esempio di eroismo, contrapposto a quello delle aree barbaricine, esclusivamente basato sulla forza fisica e coraggio temerario. Anche da noi si trattò di un culto rivolto in particolare ai giovani, conformemente alle intenzioni di Benedetto XIII, che nel 1729 lo aveva proclamato patrono della gioventù[9]. A tempi diversi e a diverse circostanze si deve attribuire il sorgere del culto per S. Maria Chiara, chiaramente legato all’omonima chiesa, forse derivata da un monastero cistercense e comunque propria di un vicino stanziamento, poi abbandonato. In seguito la stessa sorte toccherà anche all’edificio, che verrà smantellato nel 1809[10].

Fig. 2 ARCHIVIO COMUNALE DI CAGLIARI, Registro delle Deliberazioni di Consiglio, Vol. 2, c. 51., Consiglio Comunale di Pirri, delibera del 2 luglio 1857.

Fig. 2 ARCHIVIO COMUNALE DI CAGLIARI, Registro delle Deliberazioni di Consiglio, Vol. 2, c. 51., Consiglio Comunale di Pirri, delibera del 2 luglio 1857.

Di conseguenza la statua della santa traslocherà nella parrocchiale di Pirri e i pirresi continueranno a celebrarne la festa forse con maggior lena, quasi a ribadire i loro diritti su quel territorio e affinché nessuno pensasse che lo si volesse abbandonare, tal che si può sostenere che l’affermarsi del culto di S. Maria Chiara sia parallelo all’affermarsi del diritto della comunità di Pirri sull’area “denominata” appunto con questo nome, cosa che all’inizio non era assodata, dato che non mancavano le contestazioni. Ancora nel 1843 il rettore Bernardi parroco del luogo, dovette rivendicare la legittimità di un battesimo impartito a un neonato, il cui padre risiedeva nella tenuta della nobile Deidda, situata in quei paraggi. Specificò che il paese di Pirri aveva “colà fissato i limiti dei suoi terreni, contrassegnandoli coi così detti mullonis”, mentre al locale barracellato era “affidata la custodia degli attigui possessi e beni”[11] e questo soprattutto perché “eravi anticamente eretta la chiesa figliale di questa Parrocchia sotto quel titolo (di S. Maria Chiara) la di cui festa dopo la distruzione della chiesa si celebra costantemente in questa parrocchia”[12]. Ma già l’anno successi vo il medesimo sacerdote poteva informare la curia arcivescovile che il territorio “era stato recentemente aggregato al comune di Pirri dal Consiglio comunale d’accordo con la deputazione di Cagliari”[13].
L’attaccamento degli abitanti per questo culto si spiegherebbe sì con l’eccellenza della Vergine Maria e con l’ importanza della devozione a Lei tributata, così diffusa in tutta la cattolicità (fig. 3),

O Suprema Imperadora
De s’imperiu sempiternu
De su celesti guvernu
Sempiterna Guvernadora
Siast de nosu protetora,
Potentissima e Abogada[14]

 

Fig. 3. Biblioteca comunale di Cagliari, Libreria Sanjust, Goccius de Nostra Signora de Monte-Chiaro osiat Santa Maria Clara, n.10

Fig. 3. Biblioteca comunale di Cagliari, Libreria Sanjust, Goccius de Nostra Signora de Monte-Chiaro osiat Santa Maria Clara, n.10

ma anche e ancora una volta come spia di patriottismo municipalistico, come nei casi, ma in versione più ristretta e localistica, di S. Antioco o di S. Giorgio di Suelli. Ciò può essere tanto meglio compreso ove si rifletta alla scarsezza del territorio del paese, che ed in verità uno dei più ridotti della provincia (nelle medesime condizioni si trova il vicino centro di Monserrato). È facile immaginare quanto i pirresi ci dovessero tenere, tanto più che in pratica costituiva per loro l’unica festa campestre del paese, in perfetta analogia con quella di S. Lorenzo per i monserratini. Anche per questa caratteristica, che contribuiva ad attirare cagliaritani e campidanesi dei centri circonvicini, la festa prese il sopravvento sulle altre , divenendo la più importante del paese. Come segno di particolare distinzione e di partecipazione della comunità al suo svolgimento si può richiamare la deliberazione consiliare del 1857 più sopra citata nella quale si prevedeva che tutte le feste dovessero accadere “in giorni d’intiero precetto, tranne la festa di S. Maria Chiara, che si celebrerà nel terzo giorno ossia nel martedì tra l’ottava di Pasqua” ed in più si accollavano d’ora in avanti agli obrieri le spese “anche del panegirico della santa, che prima era a carico della Chiesa”[15], come fino ad allora puntualmente riportavano le annotazioni contabili della Causa Pia (l’esborso mediamente constava sulle 5 lire)[16]. Più in dettaglio la delibera statuiva che “il prodotto della questua delle tre maggiori festività si dovesse impiegare per la cera, così pure nell’elemosina dovuta al clero per la processione e Messa solenne, nel dritto dovuto alla Confraternita, sacristi, non che nella sparatoria e premio per la corsa dei cavalli”. Si prevedeva un preavviso da dare al Comune per poter questuare e soprattutto si proibiva agli obrieri di spendere “in balli, pranzi, cene, e simili” se non a spese proprie, fatto salvo “quanto solo si giudicherà necessario per il pranzo che si darà al predicatore, e trattamento che si farà ai sacerdoti, organista, cantori e sacristi che attenderanno alla solennizzazione della festa”[17]. Si faceva poi obbligo agli stessi di “render conto al sindaco” di quanto raccolto “e del fattone impiego, cedendo per intiero a favore della chiesa parrocchiale di qualunque somma si troverà residuare, che sarà impiegata od in abbellimento, e ristoro della stessa chiesa, o nel provvederla di sacri arredi”[18].
Ma più in generale occorre considerare che il maggior organo deliberante del Comune non aveva autorizzato solo le tre festività maggiori, ma aveva concesso che si organizzassero anche altre feste, alcune delle quali venivano anche citate, come quelle di S. Isidoro “per associazione tra gli agricoltori”, S. Giovanni Battista “tra gli artigiani” e “per associazione tra le donne S. Rosalia e l’Assunta”, oltre alla Vergine del Rosario[19]. In questo senso si può affermare che aveva innovato alquanto liberalizzando l’intera materia, perché aveva revocato una precedente delibera dell’11 giugno 1849, che drasticamente inibiva di questuare per festività religiose.
A seguito dei moti popolari del 1848, che avevano visto anche una dura contestazione dei gesuiti, poi cacciati da Cagliari, si era assistito ad un’ondata di laicismo, che aveva avuto dirette ripercussioni in diverse amministrazioni locali del campidano, tutte limitative delle manifestazioni religiose ed in particolare delle questue. A queste prese di posizioni non erano estranee considerazioni più prosaiche: si pensava infatti che le questue obiettivamente facevano concorrenza ai “pesi comunitativi”,ossia ai tributi comunali e pertanto contribuivano a rendere più pesante e a volte insopportabile l’aumentata pressione fiscale, nel frattempo andatasi accentuando. Queste tendenze restrittive c’erano state anche a Quartu e a Sinnai[20], ma a Pirri erano state più pesanti, tanto da arrivare drasticamente a vietare le questue ed in aggiunta il sindaco, forse animato da spirito anticlericale, si era spinto persino a vietare al sacrista la tradizionale raccolta del grano[21], che in parte serviva a compensarlo delle sue prestazioni. Come se ciò non bastasse ad accentuare i motivi di contrasto il consiglio comunale voleva obbligare il parroco a fare gratis il quaresimale e addirittura “vorrebbe che si suonassero le campane in segno di duolo anche nel caso dei funerali gratuiti, il che non è avvenuto né avviene nei paesi della diocesi”[22] .
Tuttavia non risulta che a questa delibera del 1849 venisse data piena attuazione, perché di fatto la questua per S. Maria Chiara continuo come prima. Lo ricaviamo da una nota del sindaco Francesco Zorco inviata alla Prefettura di Cagliari l’8 maggio 1852, nella quale lo stesso, evidentemente attaccato da avversari politici, che lo richiamavano alla sua osservanza, si giustificava per aver permesso che la festa della santa si svolgesse come per il passato. Egli precisava che tutto era stato fatto secondo 1’inveterata consuetudine, che in nessun altro paese del Campidano c’era stata l’abolizione delle feste religiose e che neppure sarebbe stato giusto farlo perché “si tolgano queste e subito veggonsi i villici dissipati per le bettole, darsi al vino, alla crapula, e commettere disordini e delitti”[23].
È evidente che nel paese c’erano due tendenze, di cui una anticlericale e modernizzante, rappresentata dal vecchio sindaco Don Federico Garau, dal negoziante Fedele Fanni, dal muratore Simone Zorco e cui aderiva il consigliere in carica, il dottore il Leggi Efisio Melis[24], e l’altra più conservatrice e legata alle tradizioni, che faceva capo al sindaco Zorco. Come però spesso succede in casi del genere la polemica tra sindaco e consiglieri dell’opposizione assumeva tutto il sapore di una bega paesana, tanto che il sindaco accusava il Dr Melis di nutrire animosità nei suoi confronti perché si opponeva alla pretesa di quest’ultimo di far tenere la corsa dei cavalli per la festa di S.Efisio nella strada dove era situata la sua casa[25].
Infine con la delibera del 1857 anche formalmente veniva eliminato il divieto delle questue con Yargomentazione che non solo le feste erano da considerarsi necessarie “onde conservare nei popoli la religione, che senza il culto esteriore mal potrebbesi ottenere in persone poco o nulla istruite”, ma anche “che dalla loro celebrazione ne ridonderebbe pure vantaggio alle finanze comunali, stante l’introdottosi dazio di consumo”[26].
Il tema delle feste religiose tornerà ancora di attualità nel 1870 allorché il sindaco(si trattava del negoziante Agostino Marini) denunciò di aver ricevuto diverse lamentele contro gli obrieri ed i promotori di feste in genere, i quali abusando della loro posizione si appropriavano “dei doni in oggetti d’oro e d’argento, che dai divoti vengono offerti ai santi”, per questo invitò il Consiglio comunale a pronunciarsi in merito, per cui ad unanimità di voti si impose l’obbligo per gli obrieri di “denunciare tanto all’autorità ecclesiastica che all’autorità amministrativa tutti i doni offerti, per averne nota” ed esercitare conseguentemente un’adeguata sorveglianza[27].
Come si vede l’ingerenza che l’amministrazione locale tendeva ad assumere diventa sempre più ampia fino a raggiungere il suo culmine nel 1906 quando l’obreria dipenderà dal sindaco[28]. Fino ad allora l’obriere aveva un suo margine di autonomia avvalendosi di una serie di collaboratori, in primis sa zerachia, giovani celibi che lo coadiuvavano (da qui i due tavoli separati per i giovani e gli adulti, che il pomeriggio del lunedì di Pasqua si piazzavano nel cortile della casa dell’obriere per il rito de s’affertoriu, ossia delle offerte in danaro che venivano erogate)[29]. Più in generale questa presenza dell’elemento laico è insita nello svolgimento stesso delle feste in Sardegna, che consistevano in due parti, una devozionale, demandata al clero – missa cantada, processioni e predica – e l’altra civile, appannaggio degli obrieri, spesso sotto il controllo degli amministratori locali. Ed era quest’ultima fase che riscuoteva più successo, il momento ludico e liberatorio, tanto atteso dal popolo, ancor più nel caso di feste campestri o che avessero un certo sapore di festa campestre, e tale almeno in parte era S. Maria Chiara, così come ancora veniva descritta da Mario Pintor in un suo articolo apparso nell’Unione Sarda del 1936[30] . Ma a parte la passione dei pirresi altri elementi contribuivano al successo della manifestazione: la sua ricchezza per le offerte generose, sulle quali poteva contare, la vicinanza a Cagliari, che indubbiamente favoriva l’afflusso delle folle, la perizia nel ballo dei giovani del luogo, tanto da essere definiti da Francesco Alziator “i più famosi ballerini del Campidano”[31]. Da qui la presenza di illustri visitatori, fra i quali molti viceré[32], come il conte d’Agliano, ricordato dal Lamarmora[33], o regnanti sabaudi, come Carlo Alberto, alla cui visita avvenuta nell’aprile 1829 Francesco Corona dedicò una dettagliata descrizione[34]. Vi potremmo aggiungere – episodio meno noto – anche l’arrivo di Carlo Emanuele IV, a pochi giorni dallo sbarco a Cagliari nel marzo 1799. Nel dopopranzo del 26 andò in carrozza ad assistere alla corsa dei cavalli, fu poi ricevuto in casa del Signor Annico Cambilargiu, dove gli fu offerto un rinfresco di dolci e vini[35].
La marea di popolo che accorreva, se da una parte dava il segno della riuscita dell’evento, dall’altra però era causa di incidenti, facili da succedere per il consumo di alcolici, il che era cosa comune alle principali feste del Campidano; ricordiamo il ritornello A Sant’Arega andeus tott’a una cambarada/ impari ndi torreus cun sa conca segada, riferito alla famosa sagra di Decimomannu. E così a Quartu il volgo diceva che S. Maria Chiara era la festa de is certadoris, non si sa se per spirito di rivalità municipalistica o in riferimento ad un qualche episodio realmente accaduto. Ed in verità la tradizione orale raccolta da Don Luigi Lobina, che fu parroco a Pirri a metà Novecento, narra di una fenomenale rissa avvenuta il 10 aprile 1852, originata dal fatto che a una giovane quartese avevano calpestato un piede, il che aveva suscitato l’animata reazione del suo fidanzato[36]. Ne era nato un parapiglia generale, che aveva coinvolto la forza pubblica e quel che è peggio la Guardia Nazionale di Pirri contro il Reggimento dei Cacciatori di Cagliari con annesse polemiche giornalistiche, perché L’indipendenza italiana tacciava di “cattivi ospiti i pirresi”accusando la Guardia Nazionale del luogo di essersi “gittata contro pochi Cacciatori, i quali né dato aveano appicco a tanto, né mai se non encomio si hanno meritato”[37]; controbatteva nell’Indicatore l’avvocato Lecca, giudice del Mandamento, che invece difendeva gli abitanti del luogo, attribuendo i disordini ad un equivoco. Infatti “leggiera ingiuria ricevuta da una paesana nei balli fu motivo di rissa tra paesani”; intervennero i Cacciatori a calmare gli animi, evidentemente pero non ci riuscirono se uno di loro finì ferito.
A quel punto la Guardia Nazionale per evitare il peggio e soprattutto al fine di salvare il militare ferito risolse di arrestarlo, malauguratamente suscitando la reazione dei suoi camerati, che volendo impedirlo finirono con l’azzuffarsi coi Nazionali di Pirri[38]. Resta da precisare che il fatto così come riportato da Don Lobina corrisponde sostanzialmente a verità, solo che chi glielo aveva raccontato, l’ottuagenario Salvatore Saddi, aveva sbagliato data, perché era accaduto il 10 aprile del 1849 e non del 1852 e forse il narratore aveva enfatizzato il riferimento alla donna quartese che aveva dato origine a quella baruffa generale, del quale non c’è traccia nel fascicolo processuale, che si conserva nell’Archivio di Stato di Cagliari. Gli stessi atti giudiziari non chiarironogli eventi[39]. Sicuramente vi furono una serie di malintesi, animosità tra corpi militari, tra paesani e tra paesani e cittadini, il tutto favorito dalle libagioni che solitamente avvenivano in simili circostanze.

 

Fig. 4 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

Fig. 4 Cagliari, via Santa Maria Chiara vecchia, cascina Vinalcool (foto G. Spiga)

 

 

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