Il Viceré del Bastione – Potere viceregio e autonomia giudiziaria
Al di là delle vicende individuali, dal racconto del giudice Maino emergeva una situazione che era ben lontana dall’ideale di corretta amministrazione sostenuto dal governo piemontese. Segnale preoccupante era soprattutto la tendenza viceregia a voler accentrare ogni decisione, ad essere, per così dire, “più realista del re”, in un sistema che prevedeva invece di realizzare la centralizzazione attraverso la collaborazione e l’integrazione dei diversi settori amministrativi, coordinati dalla suprema direzione politica garantita dal sovrano e dalle Segreterie. Una condizione indispensabile per raggiungere tale risultato nel campo della giustizia era far lavorare autonomamente i tribunali; ed era quanto raccomandava lo stesso Vittorio Amedeo II nel maggio 1721, scrivendo al Saint Remy che non era necessario che egli mandasse di sua iniziativa i granatieri per castigare i criminali, ma piuttosto “dare ordine alla sala criminale di farli arrestare dai soldati di giustizia…usando l’autorità che avete sopra la Reale Udienza e le due sale che la compongono, alle quali voi dovete dare gli ordini, perche’ facciano quello che devono”[53].
Il viceré non doveva rispondere di persona a tutte le suppliche che gli arrivavano, né pretendere di riuscire a controllare ogni questione, bensì indirizzare i postulanti “ai magistrati, se si tratta di affari di giustizia oppure ai subalterni di V.Eccellenza per gli affari amministrativi, di cui ella riceverà le relazioni”. Era quanto ribadiva anche il ministro Mellaréde, che ricordava che ciascuna questione doveva seguire un canale appropriato, altrimenti non ci sarebbe stata possibilità di venirne a capo. “Se il Re non avesse stabilito qui degli ordini”, ammoniva il responsabile degli Interni, “affinché ogni cosa passi per il suo canale, tre segretari di Stato me compreso non sarebbero sufficienti”; per cui il Pallavicino doveva affidarsi alle magistrature ordinarie e fare in modo che agissero “quelli che sono preposti all’amministrazione della giustizia”[54]. Soltanto così l’azione politica avrebbe assunto quella gradualità che tanto importava al governo torinese, interessato a che non venissero avvertire diversità rispetto alla dominazione iberica.
A questo proposito, secondo Vittorio Amedeo II, la migliore strategia era proprio quella usata dagli spagnoli, cioè “di non seguire l’istinto; di pesare le decisioni prima di prenderle e renderle pubbliche; di non prenderle che a sangue freddo e solo dopo consultazioni, essendo più conveniente ritardare di qualche giorno che deliberare troppo frettolosamente”[55]. Il barone invece aveva agito in diverse occasioni con una rapidità che a Torino era sembrata precipitazione; ciò era stato causato sia da fattori caratteriali e dalla sua formazione militare, sia dai condizionamenti ambientali a cui era stato sottoposto venendo a contatto con la realtà sarda.
Sorretto in principio da un sano realismo, che lo rendeva scettico sulla possibilità di introdurre subito dei cambiamenti, il Pallavicino nell’ottobre 1720 poteva dichiarare di essere ben lontano dall’amare le novità e dal credere “che si possa correggere tutti gli abusi che si sono introdotti nel Paese”. Nell’agire aveva cercato di seguire “le massime che V.Maestà ha la bontà di darmi, che sono di ascoltare sul medesimo fatto più persone tra quelle che conosco come le più informate e istruite, e riguardo le questioni che possono avere importanza io consulto i Ministri sia nel particolare che nel generale, prima di dire loro il mio parere e che questo si metta in esecuzione, chiedendo se lo trovano confacente alla materia di cui si tratta, senza che io dienda troppo da quello che decidono”[56]. In effetti il problema consisteva proprio nella possibilità che il viceré trovasse dei validi collaboratori tra i locali. Stretto fra il dovere di non farsi condizionare e l’esigenza di avere comunque una cerchia di consiglieri, il Saint Remy preferì confidarsi con pochi oppure prendere decisioni in piena autonomia. Di qui maturò la tendenza a occuparsi personalmente di tutto, invadendo anche le competenze altrui, come accadde con la Reale Udienza.
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