Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà
Nonostante le buone disposizioni della corte torinese, le azioni di disturbo nei confronti del governo non cessarono, così che tra luglio e agosto il Saint Remy tornava a riferire delle insistenti richieste del vescovo di Ales, affinché venisse riunito il Parlamento[121]. Vittorio Amedeo II però aveva ormai compreso che per rispondere alla “fronda” degli ecclesiastici era necessario elaborare una valida strategia, fondata su solide basi giuridiche. Fin dal maggio 1723 egli ordinò che venisse fatto uno spoglio sistematico negli archivi del Regno, per recuperare tutte le carte relative ai benefici esistenti in Sardegna[122]. All’inizio di giugno il viceré rispondeva di avere iniziato le ricerche, ma di essere piuttosto scettico sui risultati, dal momento che “questo è un paese, dove tutte le cose giacciono in abbandono e non esiste una sola persona che sappia leggere decentemente la scrittura antica”[123].
Il giudizio del Pallavicino non aveva tuttavia più importanza. Dopo quasi tre anni di viceregno, la sua immagine pubblica si era logorata e il sovrano aveva pensato di sostituirlo con un diplomatico come Carlo Alessandro Doria, abate del Maro, ben istruito negli usi curiali e spagnoli per essere stato a lungo ambasciatore sabaudo a Roma e a Madrid. Al viceré non restò altro che dedicarsi alla stesura della relazione sulla situazione della Sardegna da consegnare al suo successore, come gli era stato ordinato fin dal mese di luglio[124]. A metà agosto egli informava Torino di stare facendo del proprio meglio “per offrire per iscritto al mio successore un’idea del Governo di questo Regno[125]. Intanto, la notizia dell’avvicendamento si era sparsa nell’isola e a riguardo il giudice Maino notava che “Gli ecclesiastici l’hanno intesa con singolare soddisfazione, sperando che da lui saranno più favoriti, per essere ecclesiastico. La nobiltà vive alquanto in timore, per avere detto il Barone di S.Remy ad alcuno che e molto sostenuto”[126].
I nobili sardi a dire il vero non erano riusciti a legare molto nemmeno con il Pallavicino. Uscito debole e diviso dalle vicende che avevano coinvolto l’isola tra Sei e Settecento, il ceto nobiliare era andato al confronto con la nuova dinastia in ordine sparso, mostrandosi privo di compattezza e senso di appartenenza. Lontani ormai da tempo i grandi feudatari spagnoli, anche i membri più eminenti dell’aristocrazia locale come i marchesi di Villasor e di Laconi, capi riconosciuti del partito filoaustrico e filo spagnolo, avevano deciso di risiedere all’estero, accentuando così la mancanza di personaggi di prestigio tra le file dello Stamento militare[127].
Un ceto così depauperato appariva piuttosto facile da sottomettere, ed è noto a tale proposito il giudizio ottimistico dato dal Saint Remy al suo arrivo a Cagliari, a cui faceva eco il segretario Labiche, il quale scriveva che la nobiltà gli sembrava “assai educata, affabile e dotata di maniere; tutti paiono contenti di essere capitati sotto il dominio di S.Maestà”[128]. Nonostante le buone impressioni suscitate nei ministri sabaudi, la corte di Torino decise di procedere con cautela e ordinò al viceré di raccogliere in primo luogo informazioni e “Dopo che tra gli Ecclesiastici e li nobili avrete ben conosciuto quelli che saranno li più zelanti e li manco appassionati e che saranno nel medesimo tempo abili a qualche impiego, ce ne informerete, come pure della qualità ed utilità degli impieghi, per ricevere le nostre determinazioni”[129].
Il governo piemontese fin dall’inizio affrontò la questione dei rapporti con i nobili condizionato dal timore dell’influenza delle fazioni, specie di quella spagnola; in effetti, dopo decenni di logoranti contese, il dualismo tra carlisti e filippisti aveva perduto gran parte della sua forza eversiva. Passioni e contrapposizioni politiche in seno alla nobiltà sarda si erano progressivamente indebolite, per lasciare il posto a un atteggiamento comune, vale a dire la richiesta di impieghi nella nuova amministrazione, che rispondeva all’esigenza dell’aristocrazia di far fronte alla propria cronica mancanza di mezzi.
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