Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)

 

Le misure proposte dal Saint Remy potevano sembrare particolarmente dure e repressive, ma in realtà erano le medesime che erano state prese in circostanze simili nei territori sabaudi di terraferma e non riflettevano un particolare accanimento nei confronti dei sardi. Ne avevano già fatto le spese per esempio i sudditi monregalesi che si erano ribellati a Vittorio Amedeo II durante la cosiddetta “guerra del sale” del 1680-82 e a tale episodio faceva riferimento lo stesso barone, che aveva partecipato da giovane alla repressione della sommossa, probabilmente militando sotto gli ordini del padre Vittorio Maurizio Pallavicino, marchese delle Frabose[223]. In una lettera al re del marzo 1727 nella quale ritornava sul caso di Ozieri, egli infatti ricordava che “come ho avuto l’onore di servire V.Maestà nella sedizione del Mondovì, cosi mi sono regolato in parte sopra le disposizioni et ordini di V.Maestà dati per mettere all’obbedienza quei Popoli, e sono in pensiero che potrà anche riuscire in questi, quando tutti agiscano con quel zelo e attività che si deve”[224]. Il sovrano da parte sua nel febbraio 1727 aveva approvato i provvedimenti presi dalla Reale Udienza, accogliendo anche alcuni suggerimenti del viceré[225].

L’ intervento del governo non impedì che a Ozieri la situazione rimanesse delicata, tanto che all’inizio dell’estate vi stazionavano 80 soldati e uno squadrone di dragoni[226]. Tuttavia per il Saint Remy il vero problema non era rappresentato dalla cittadina, bensì dalla vicina Sassari, “dove ancora regna il partito austriaco e il spagnolo e dove questo contagio è inveterato”; le fazioni esistenti nella città coinvolgevano infatti il territorio circostante nelle loro faide”[227]. Implicato nei torbidi di Ozieri era per esempio il conte di San Martino, quel Giovanni Valentino che non a caso era esponente di spicco dello schieramento filoimperiale e uno dei principali accusatori del giudice Lorenzo Pilo e che il viceré aveva deciso di confinare a Cagliari con altri esponenti della famiglia. Scrivendo a Torino nell’aprile 1727, il barone riteneva sempre più necessario “di tener lontano da Sassari tanto il Conte di S.Martino che Don Francesco Valentino suo fratello, non solamente per motivo della influenza che potrebbero dare alle parzialità di Ozier, ma anche per le nuove scoperte che si sono fatte delle malversazioni commesse dal detto Don Francesco Valentino nell’ufficio di subdelegato della Intendenza… e principalmente sopra li contrabbandi che si suppone essersi dal medesimo commessi a pregiudizio delle finanze di V.Maestà forse per più di 8 mila scudi”[228].

Nonostante che la questione dell’ordine pubblico, seppur apparentemente confinata nella parte settentrionale della Sardegna, continuasse a costituire una fonte di preoccupazione per le autorità, senza dubbio la riconciliazione con Roma fu un elemento di stabilizzazione per il regime sabaudo,
spingendo il governo piemontese a prendere nuove iniziative, miranti a rendere più solido il dominio dell’isola. In quest’ottica può essere per esempio interpretata la scelta di diffondere l’uso della lingua italiana, che prese corpo proprio durante il secondo viceregno del Saint Remy.

Al momento del suo avvento sul trono sardo Vittorio Amedeo II aveva affrontato con grande prudenza anche questo aspetto, ordinando il mantenimento dello spagnolo nei documenti amministrativi e l’introduzione progressiva dell’italiano[229]. Il viceré invece, che si basava su un sentimento diffuso a suo dire tra i ceti dirigenti, aveva manifestato un altro parere: “La mia modesta opinione”, notava il 22 luglio 1720, “è che io debba emanare gli ordini nel Regno in italiano e prestare l’atto di giuramento in latino”, mentre suggeriva di far insegnare la lingua italiana nelle scuole[230]. Nel gennaio 1721 la corte torinese ribadì il divieto di introdurre l’insegnamento dell’italiano a livello scolastico, “essendo peraltro assai naturale che debba introdursi insensibilmente da se stesso”[231]. In un momento in cui il possesso dell’isola appariva ancora incerto, il governo sabaudo intendeva evitare ogni brusco cambiamento e preferiva affidarsi a una graduale integrazione delle due culture. Al Pallavicino non restò altro che obbedire, salvo ribadire che secondo lui il metodo migliore per “introdurre la lingua italiana sarebbe che si studiasse in italiano, ma io non ho intenzione di fare alcun passo in questo senso, se non quando V. Maestà me l’abbia ordinato”[232]. Negli anni seguenti la questione non venne più sollevata e fu ripresa soltanto nella primavera 1726, allorché il Saint Remy fece ritorno in Sardegna[233].

 

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