Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)

 

Essi tuttavia non erano ancora sbarcati in terra sarda e già dovevano fare i conti con la difficile situazione dei loro capitoli. A Cagliari, secondo la testimonianza del Pallavicino, paclre Antonio Falletti si era fatto influenzare dal vicario e aveva scelto come membri della “famiglia” vescovile persone poco favorevoli al governo; inoltre si comportava come se fosse lui il vescovo effettivo e non il fratello Giovanni Giuseppe Falletti[240]. A Sassari la situazione non era migliore, tanto che lo stesso Saint Remy già nel febbraio 1727 confessava di compatire il futuro arcivescovo, poiché “quel capitolo è il più rivoltoso di tutti gli altri e composto di soggetti senza dottrina e turbolenti”[241]. In effetti, al loro arrivo i presuli sabaudi subirono i condizionamenti dell’ambiente, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei vicari, suscitando le apprensioni della corte torinese[242].

La presenza dei vescovi, specie di quelli piemontesi, abituati alla collaborazione con il governo secondo il modello impostato da Vittorio Amedeo II negli stati di terraferma, ebbe comunque effetti positivi nell’amministrazione delle diocesi[243]. Alla fine di maggio del 1727 il viceré si augurava che si mettesse finalmente “riparo alli gravi abusi introdotti dai Vicari, e massime circa il gran numero dei tonsurati et altri esenti” e nel giugno successivo assicurava il sovrano che “detti Prelati dimostrano di avere tutto il zelo per il suo Real servizio”[244]. Il primo importante effetto delle nuove nomine vescovili, fu l’editto che regolava i tonsurati e i chierici coniugati, che venne elaborato nel luglio 1727 dall’arcivescovo di Cagliari Falletti.

Nel darne la notizia al Mellaréde, il Pallavicino invitava il governo centrale ad approfittare del momento favorevole e a pretendere dalle autorità ecclesiastiche ulteriori cambiamenti, “perché bisogna battere il ferro finché è caldo, poiché i Sardi non sono affatto disposti a questo tipo di riforme e se non si stabilisce da subito una buona regola, gli abusi continueranno come in passato”[245]. Il barone si impegnò affinché l’editto venisse approvato anche dai titolari delle altre diocesi e benché non tutti fossero d’accordo, il nuovo regolamento venne dato alle stampe alla fine di agosto[246]. L’evento rappresentò senza dubbio un successo per il viceré, il quale aveva trovato fin dall’inizio un valente collaboratore nel reggente Beltramo, grande esperto in materia giurisdizionale e uomo senza dubbio più capace del predecessore conte di San Giorgio[247].

La soluzione del problema delle diocesi vacanti contribuì a consolidare il regime sabaudo e una prova dell’atteggiamento più sicuro assunto da Vittorio Amedeo II è costituito anche dalla volontà, mai manifestata negli anni precedenti, di procedere alla convocazione plenaria del Parlamento sardo. Pochi mesi dopo il suo arrivo a Cagliari, il Saint Remy si era già interessato alla prossima convocazione degli Stamenti per il rinnovo del sussidio regio, il cui termine scadeva alla fine del 1726[248]. A novembre egli scrisse al Mellaréde, avvertendolo che “verso la metà del prossimo mese si raduneranno gli Stamenti per la proroga del Reale donativo e se ci sarà qualche lamentela avrò premura di inviarla a S.Maestà, senza che la cosa fermi la procedura della proroga del detto donativo”[249].

L’ottimismo del barone era motivato dalla facilità con cui il sussidio era stato prorogato nel 1721 e nel 1724, così che all’inizio di dicembre egli poteva comunicare a Torino che stava dando le disposizioni necessarie al rinnovo, “il quale mi assicuro sarà per farsi senza la minima opposizione”[250]. In effetti anche questa volta, tranne qualche ostruzionismo del clero cagliaritano, il donativo venne concesso senza difficoltà nel gennaio 1727, ma le circostanze che accompagnarono l’atto risultano particolarmente significative, in quanto testimoniano sia un diverso atteggiamento della monarchia nei confronti dei ceti e soprattutto della nobiltà, sia una rinnovata capacità di iniziativa politica da parte di quest’ultima[251].

Lo Stamento militare presentò infatti al viceré una serie di richieste, tra le quali compariva quella “che si tengano le Corti ad effetto di poter presentare le loro suppliche sopra li emergenti che occorrono”; mentre si richiedeva “un nuovo riparto del Reale donativo per le ville”. Infine, i rappresentanti dei nobili e delle città regie protestarono, sia pur “con tutta sommissione, che a loro spiaceva di non poter aumentare il Real donativo, stante le miserie in cui si trovavano questi Popoli”[252]. In pratica si trattava di un implicito ricatto: se non veniva cambiato il metodo di ripartizione dei sussidio, il sovrano avrebbe dovuto accontentarsi dei soliti 60.000 scudi che da anni venivano corrisposti alla Corona.

 

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