Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)

 

A spingere questa volta Vittorio Amedeo II verso un cambiamento di rotta, erano considerazioni sia di ordine politico che pratico. In primo luogo egli desiderava “alienare sempre più i Regnicoli dalla nazione spagnola” e quindi aveva deciso “di procurare l’introduzione della lingua italiana”. Inoltre, l’esperienza aveva dimostrato “quanto possa esser utile al nostro servizio l’introduzione di detta lingua, a riflesso principalmente delle necessarie mutazioni che ci occorre di fare degli ufficiali di giustizia, quando che da Noi vengono destinati a subentrare al loro impiego, non essendo pratici delle Leggi e pragmatiche, né coadiuvati dal linguaggio del Regno, non sono in stato di opporsi, pendente l’indispensabile noviziato che loro conviene di fare, ai pregiudizi che abbiamo motivo di temere, non solo nelfamministrazione della Giustizia, ma anche alla nostra giurisdizione”. Si trattava dunque di favorire la comprensione tra ufficiali sardi e piemontesi. A tale scopo veniva ordinato al viceré di discutere del problema con il gesuita Antonio Falletti di Barolo, che dal 1722 risiedeva nell’isola, e di “trasmetterci poi il progetto, che a questo fine stimerete proprio”[234].

Il Pallavicino, dopo essersi consultato col Falletti, rispose che era “veramente indispensabile il cominciare ad insegnare alli Maestri delle scuole la lingua Italiana, perché possano poscia apprenderla ai studianti. Su questo supposto sarebbe tal cosa assai facile, ma trovo un inconveniente, e si e che nel Regno non si parla il linguaggio spagnolo, ma bensi il sardo, linguaggio barbaro e converrebbe che tutti quelli che insegnano nei Villaggi alli figlioli venissero loro medesimi in Cagliari per impararlo. Sono perciò di sentimento che si cominciassero a mandare alcuni Religiosi sia Gesuiti che Scolopi, quali tengono qui le scuole, per vedere che specie farebbe questa nuova direzione, ma penso che non vi inclinerebbero questi Religiosi sardi”[235].

Come al solito il barone propendeva per scelte drastiche, che tuttavia non erano condivise dal sovrano, il quale nel luglio 1726 ribadì che non era “nostra intenzione di abolire in cotesto Regno l’uso della lingua sarda, ma bensì di fare che vi sia insensibilmente introdotta l’italiana a luogo della spagnola”. L’intento era dunque quello di sostituire progressivamente l’idioma dei vecchi dominatori con quello usato dalla nuova dinastia, sancendo anche in questo modo l’avvenuto cambio di governo. Vittorio Amedeo approvava del resto la proposta di inviare nelle scuole tenute dai Gesuiti alcuni religiosi della terraferma, affinché insegnassero l’italiano “agli altri Padri Maestri”, in modo che questi a loro volta la trasmettessero agli studenti e cosi potesse “diramarsi insensibilmente nel Regno”[236]. Nell’estate il viceré prese contatti col Falletti e col Rettore degli Scopoli in Sardegna “per la esecuzione di questo progetto”, che prevedeva l’arrivo di “due soggetti italiani, cioè uno per questo Capo e l’altro per quello di Sassari”, per istruire “questi Padri in detta lingua”[237].

L’attuazione del piano non fu tuttavia così facile come sembrava alla corte torinese. Innanzitutto dei due religiosi che dovevano giungere dal Piemonte ne arrivò solo uno, il padre Vassallo, mentre lo stesso Falletti incontrò forti resistenze da parte dei suoi confratelli, così che nel marzo 1727 si doveva ancora “dare esecuzione al suo progetto”[238]. È probabile che il monarca sabaudo per realizzarlo confidasse molto nella collaborazione dei nuovi vescovi nominati dopo la riconciliazione con Roma e specialmente nei prelati piemontesi. Nell’aprile 1727, comunicando la loro partenza per l’isola al viceré, Vittorio Amedeo II lo informava che “li suddetti Prelati sono partiti con ogni miglior disposizione di agire di concerto col governo e di mantenere con esso una buona armonia”[239].
 

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