Provincia di Cagliari: Ambiente & Civiltà 

 

CAPITOLO III – CULTURA E ARTE

 
Giulio Paulis

Storia linguistica dell’area campidanese

 
Gli strati preromani

 

“Campidanese” è il nome con cui si designa comunemente il complesso dei dialetti sardi meridionali, in contrapposizione alle varietà parlate nel centro e nel settentrione dell’isola.
Al momento, non possediamo elementi sufficienti per stabilire con esattezza in quale misura le lingue parlate in Sardegna anteriormente alla colonizzazione romana abbiano contribuito in qualche modo a determinare, attraverso reazioni di sostrato, il formarsi dell’attuale ripartizione dialettale. In vero, basandosi sull’esame dei nomi di luogo e del lessico dei dialetti moderni, la scienza linguistica è riuscita sin qui a rendere verosimile l’esistenza di diversi strati linguistici all’interno del paleosardo. Così, per esempio, Johannes Hubschmid, il più autorevole studioso di questi problemi, ha distinto recentemente nel sostrato paleosardo almeno sei componenti: una antichissima (cui dovrebbero attribuirsi, p.es., i numerosi toponimi accentati sulla vocale finale: Coremò, Belò, Alasò, ecc.), per la quale non sono state individuate sino ad oggi connessioni di sorta; una euro-africana, risalente ad un sostrato che si estendeva sino all’Africa nord-occidentale, alla Lusitania nella penisola iberica, alla Gallia e all’Italia (vi apparterrebbe, p. es., il sostantivo mátta *albero, pianta,cespuglio, esistente sia in campidanese, sia in logudorese); una iberica, di tipo euro-africano, ma proveniente molto più tardi direttamente dalla Spagna (vi si dovrebbe ascrivere, p. es., il campidanese bèga ‘valle acquitrinosa’, che si confronta col catalano, spagnolo vega, col portoghese veiga e col basco ibai); una ispano-caucasica, da ricondursi ad un successivo sostrato, che ad occidente raggiungeva la Lusitania, a settentrione la Gallia, ad oriente il Caucaso e a meridione interessava anche una parte dell’Africa settentrionale (vi apparterrebbero, p.es., karróppu ‘gorgo,vortice d’acqua; crepaccio’, túvara ‘erica’, tásaru ‘alaterno’, Kúkkuru ‘cima di montagna’, mògoro ‘collina bassa’, frequente anche come nome locale, ecc.); una tirrenico-etrusca, caratterizzata soprattutto dai nomi di luogo in -ena, -eno (p.es., Dardèna, villaggio distrutto della Gallura), chesono concentrati principalmente nella Sardegna nord-occidentale e che si trovano numerosi anche nella vicina Corsica; e infine una componente libica, alla quale si sono voluti assegnare numerosi elementi onomastici del sardo antico e moderno, ma la cui precisa identificazione presenta numerose difficoltà.
Purtroppo, ignoriamo quale estensione geografica avesse ciascuno di questi sostrati paleosardi. Parrebbe, comunque, un relitto prelatino il cosiddetto “colpo di glottide”, cioè quel suono pronunciato con la chiusura della laringe, che sostituisce -k-, -kk- in vari dialetti barbaricini (p. es., pí’áre = pikáre ‘prendere’, má’u = mákku ‘matto’), -n- intervocalica ad Isili (lû’â = luna ‘luna’), l intervocalica a Siurgus Donigala (sa ‘una = sa luna), l, n– per intervocaliche nei dialetti del Sarrabus (sa ‘û’â = sa luna) per quanto una teoria recente vi veda il risultato di adattamenti strutturali piuttosto tardi. Egualmente, sembra che la grande vitalità nel sardo attuale di alcuni schemi vocalici, ossia di sequenze particolari di timbri e di ritmi all’interno della parola, affondi le sue radici in abitudini preromane: p. es., a Oristano, Mogoro, ecc., la parola latina ilice(m) ‘elce’ si volge ad una fase icile (donde ízhibi), a causa della tendenza del sostratto a far emergere una struttura in ‘-ile propria di certi toponimi afro-ibero-sardi. Inoltre si attribuisce solitamente al sostrato paleosardo la pronuncia fortemente vibrata della r- iniziale, che viene fatta precedere da una vocale, il cui colore in sardo antico e negli attuali dialetti barbaricini dipende dal contesto fonetico (p. es., orròsa ‘rosa’; erríere, irríere ‘ridere’; arrána ‘rana’), mentre nelle parlate del Campidano meridionale si è generalizzato il trattamento arr-.
Uno stato di cose analogo a quello del sardo campidanese e barbaricino è documentato anche per il basco, il guascone, l’aragonese e per i dialetti dell’Italia meridionale; invece il logudorese e le parlate sarde del centro non conoscono il fenomeno in questione, che secondo alcuni studiosi avrebbe origini relativamente recenti. Parimenti si pensa risalgano al sostrato, per quanto anche in questo caso non manchino spiegazioni differenti, l’articolazione della -dd- (da ll latina) in kwáddu ‘cavallo’, púdda ‘gallina’, péddi ‘pelle’, ecc., con la lingua piegata all’indietro o verticale o poggiante contro gli alveoli o il palato (in campidanese questo suono sta cedendo il passo ad una -dd- di tipo italiano); la pronuncia della s ottenuta sollevando la punta della lingua verso le gengive interne degli incisivi superiori (alveoli) e ivi producendo il contatto, e non abbassandola – come in italiano – verso gli incisivi inferiori (in campidanese, questo tipo dis si conserva negli arcaici dialetti del Sulcis); l’avversione-alla pronuncia della -f- intervocalica, che si trova a Bitti e dintorni, nella Baronia ed in Barbagia.

 

 

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