Decorazioni del Palazzo Viceregio di Cagliari – La sala gialla

 

Sala Gialla - D. BRUSCHI: Putti con tamburello (partic. del soffitto) Foto: Guido Costa, Cagliari

Sala Gialla
D. BRUSCHI: Putti con tamburello (partic. del soffitto)
Foto: Guido Costa, Cagliari

Quanto alla scena, ai personaggi raffigurati, al suo senso, una lettura esauriente della figuralità realizzata dal Bruschi riconduce diritta a simbologie del mondo antico e a reminiscenze d’immagine del filone classico del Seicento. Un recupero, anche questo, abbastanza spiegabile se lo si commisura, uscendo dai limiti del discorso puramente artistico, alla situazione civile del momento: era, cioè, naturale che la monarchia, alla ricerca di consensi su un terreno di intesa universale e di una nobilitazione di ordine culturale, favorisse il rilancio della tradizione aulica che coincideva, grosso modo, con quella classica o classicistica.

Convergono pertanto in questa gustosa composizione una pluralità di spunti, tratti genericamente dalla cultura classica: fondamentalmente imperniati sul1’interpretazione dei culti delle Muse, delle Ore e del mito di Dioniso. L’insieme costituisce, per le ragioni dette, un ibrido allegorico dall’intonazione sorridente, a cavallo tra un sentore tardo-barocco e il gusto, ben più presente, per l’operetta e le sue licenze poetiche.

 

Sala Gialla - D. BRUSCHI: Euterpe, musici e danzatori (partic. del soffitto) Foto: Guido Costa, Cagliari

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D. BRUSCHI: Euterpe, musici e danzatori (partic. del soffitto)
Foto: Guido Costa, Cagliari

Sono individuabili le più scoperte allusioni: su un solio monumentale siede Euterpe, musa della lirica e della musica, raffigurata nell’atto di pizzicare le corde di una cetra; ai suoi piedi siedono vecchi suonatori di tibie e di aulos; dietro di lei stanno, in piedi, una tibicina e una discinta suonatrice di cembalo, alla quale si abbraccia un fanciullo (prestato quasi alla lettera da Caravaggio). È questo il gruppo relativamente più statico o, meglio, composto. Da qui, da due figure di giovani suonatori di piatti, si sviluppa il movimento, strutturalmente segnato da un alternarsi, in senso convergente e divergente, di posizioni oblique dei corpi, delle gambe e delle braccia, sottolineate dall’intreccio svolazzante dei veli, dei tirsi, dei pampini.

 

Sembrerebbe una scena da rito dionisiaco, come lascia supporre la presenza dei tirsi e di fanciulli nudi: un baccanale.

Sala Gialla - D. Bruschi: La danza di Tersicore (partic.) Foto: Guido Costa, Cagliari

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D. BRUSCHI: La danza di Tersicore (partic.)
Foto: Guido Costa, Cagliari

E indubbiamente c’è un richiamo preciso in questo senso. Ma la leggiadria e la levità delle coppie femminili danzanti indica come si sia voluto alludere alle Ore e alle Grazie, spesso rappresentate in atto di ballare e associate frequentemente al culto di Dioniso. Alludono, nel mito classico, alle stagioni e alla fecondità; spargono fiori e portano la primavera. E forse dovremmo riconoscere nei due bei nudi femminili più vicini alla «ribalta» dell’ampio e animato scenario di palazzo, rispettivamente Tersicore, musa della danza, nella figura che suona il cembalo, entro l’alitare elicoidale del velo, cinte le anche da una sonagliera, e Flora, dispensatrice della primavera, nella figura di spalle che agita un velo celeste, segnando la scia del suo ballo con rami fioriti; due amorini (tra i brani più belli senza dubbio di tutto il dipinto) suonatori di cembalo, leggermente più avanzati verso il «proscenio», imprimono al ballo un senso rotatorio, da carola. Si potrebbe perciò pensare a un’indicazione nel senso delle feste floreali che si svolgevano nella antica Roma. Ma è più facile, e senz’altro più verosimile, attribuire al Bruschi (e al suo ispiratore) l’idea di una rievocazione mitologica che citasse il più possibile gli antichi miti e personaggi degli avvenimenti fausti, in un augurale «invito alla danza» e allo spirito.

Se non fosse già di per sé chiarissima la rappresentazione allegorica, esiste la conferma attraverso la sequenza degli strumenti musicali antichi (tra i quali appare emblematicamente l’arcaica siringa) raffigurati a monocromo intorno alle pareti di un ambiente prospetticamente dilatato, ritmato da lesene classicistiche un vero e proprio spazio teatrale sullo sfondo della rappresentazione. In questo senso non va dimenticata l’attività di scenografo che vide il Bruschi impegnato più volte nei teatri romani per la preparazione di quinte e di sipari [21].

Pertanto l’impressione di un giuoco di artifici tra culturali ed empirici, proprio di tutti gli scenari, è in questo caso ben giustificato da una tendenza dell’artista, assolutamente professionale. E questo gioco è orientato, sì, verso il classico, attraverso i nudi e i costumi – e certe indicazioni iconografiche sembrano rilevate dalla cultura figurativa romana e pompeiana, in quel momento molto in evidenza, per i continui ritrovamenti -, ma c’è soprattutto una grande libertà, niente affatto filologica, che spiazza l’osservatore dotto con inserti di sapore romanticamente esotizzante: libertà propria del teatro leggero.

Tuttavia, malgrado tutti gli indizi di movimento, la configurazione è stranamente ferma, come in un grande «quadro plastico» sorpreso dall’obiettivo fotografico: ciò è dovuto, strutturalmente, alla predominanza figurativa del settore centrale del pannello, che con la sua equidistanza dai margini riporta ogni dato all’interno di un equilibrio compositivo, tendenzialmente statico.

Detto ciò, vale la pena aggiungere che proprio questo insidioso sorriso che percorre l’immagine finisce per essere una precisa spia dei tempi e per dare la misura della distanza che corre, nelle intenzioni e nel senso, tra lo spirito realmente smemorato, teso piuttosto al presente in progresso, della «civiltà» umbertina, e la densa, drammatica spiritualità della cultura classica.

 

 

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