Decorazioni del Palazzo Viceregio di Cagliari
Frammenti classicisti e modernità
Che l’appello al mondo classico sfiorasse appena la superficie di quella nobile cultura è dimostrato, tra l’altro, da diversi elementi della decorazione della sala del Consiglio, alla quale è bene ritornare dopo la visita più distensiva alla sala gialla.
Non si tratta unicamente delle scritte latine che, sotto forme epigrafiche, costituiscono le didascalie degli episodi della storia sarda raffigurati nei quattro pannelli parietali: scritte già di per sé indicative di atteggiamenti revivalistici. Si parla di motivi più propriamente figurativi. Sarà opportuno, pertanto, sottolineare qui la ricorrenza di motivi iconografici o addirittura di «calchi» tratti di peso dai simboli e dagli emblemi del mondo romano antico.
Tali sono le aquile dipinte e le Vittorie alate, in stucco bianco, recanti nelle mani coroncine dorate, che si alternano ritmicamente lungo il fascione cavo tra le pareti e il soffitto, con la cesura delle chiglie delle navi guerriere sormontate da gruppi allegorici di personificazioni eroiche. Tali sono persino, ancor più letteralmente, le riproduzioni alle pareti e ai quattro angoli, di aste di insegne legionarie romane, con i serti di alloro, le teste leonine e la sorprendente sigla S P K nella tavoletta a bordi espansi, che dovrebbe significare, sulla falsariga del più celebre S P Q R, «Senatus Populusque Kalaritanus».
È, anche qui, appena il caso di ribadire l’ipotesi che il revival dell’antichità romana si accompagnasse assai bene alle aspirazioni della monarchia umbertina alla legittimazione del proprio potere su un territorio appena ricucito in forma di nazione, richiamandosi al comune ceppo e alle glorie latine, alla sua antica e unificatrice vocazione imperiale. Né bisogna dimenticare che in quegli stessi anni si correvano le prime avventure coloniali in terra d’Africa. L’interpretazione del classico, perciò, diventava a sua volta una sorta di direttiva ideologica per la nuova classe dirigente e, naturalmente, per i ceti amministrati maggiormente sensibili al richiamo e alla benevolenza del potere.
D’altra parte gli artisti italiani, quando erano chiamati alle imprese celebrative o talvolta più autonomamente, aderivano, sembrerebbe di buon grado, a questo progetto di edificazione sociologico-culturale, soprattutto dopo il primo impetuoso assetto del Regno d’Italia.
Trascurando i brividi populisti e libertari che percorrono tutto l’Ottocento, da Vincenzo Vela a Gemito, suscitati da episodi della storia romana, vanno appena ricordati alcuni esempi più attinenti al discorso. Ricordiamo perciò Cesare Maccari, che faceva egregiamente rivivere i severi fasti senatoriali di Roma nei suoi affreschi in una sala di Palazzo Madama, eseguiti tra il 1882 e il 1888, e conclusi con una maestosa allegoria intitolata Trionfo d’Italia.
Fissato bene il diverso grado d’importanza, non c’è chi non veda lo straordinario parallelismo, quasi istituzionale, tra l’andamento dei due fatti celebrativi, a Roma e a Cagliari.
Mentre tuttavia nella Capitale, e nella sede parlamentare più prestigiosa, il richiamo alla virtù e alla grandezza romana forniva gli exempla a tutta la nazione, in sede locale prevalevano le virtù, per dir così, territoriali, disciplinate però dagli stessi emblemi e dirette, tramite i cicli allegorici delle sale dei rappresentanti politici, a concorrere a 8 quell’ideale trionfo d’Italia allegorizzato’ nell’alto tempio dei legislatori centrali.
Ma, oltre il Maccari, si potrebbero citare tanti altri pittori ispirati dal fascino delle antiche glorie: da Saverio Altamura che nel 1863 dipingeva il Trionfo di Mario sui Cimbri, della Galleria di Capodimonte a Napoli (e non c’è dubbio sul senso del dipinto, considerato l’anno in cui fu realizzato), ad Alcide Segoni, autore in Firenze di un Ritrovamento del corpo di Catilina dove il dettaglio realistico è curato al punto da offrire un repertorio autentico sull’abbigliamento dei soldati romani.
Le citazioni potrebbero essere ben più numerose, considerando anche la produzione di sculture che, scavalcando il secolo, costruivano non poche apoteosi di marmo e di bronzo in forme classicistiche per uomini illustri e per regnanti. È senz’altro da ricordare in questo campo – e forse potremmo qui usare meglio il termine architettura – che a Roma, proprio negli stessi anni in cui Bruschi lavorava a Cagliari, autorità e artisti apparivano piuttosto impegnati, con discussioni e progetti, a realizzare quell’Altare della Patria, o Monumento a Vittorio Emanuele II che, significativamente, con un colossale montaggio classicista, chiude il XIX secolo e apre il nostro.
Da non dimenticare poi, al riguardo, che autore del progetto finale fu Giuseppe Sacconi, buon allievo di Domenico Bruschi.
L’evocazione di questo monumento cade a proposito per ribadire quale fosse il clima imperante nell’arte ufficiale in quest’ultimo tratto dell’Ottocento. Infatti, quando il Parlamento ne decise la costruzione, in onore al Padre della Patria, nel 1880, ne fissò anche il tipo d’ispirazione, riassunta dal bando di concorso con la richiesta che l’opera «nella estetica forma riassumesse la nostra storia patriottica e fosse simbolo dell’arte nuova» [22].
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