Decorazioni del Palazzo Viceregio di Cagliari – Frammenti classicisti e modernità
Altro parallelismo, teorico questa volta, che ritroviamo quasi a specchio con la vicenda della decorazione del Palazzo Viceregio: ciò che serve a togliere al nostro discorso, se mai in qualcuno fosse nato il dubbio, l’ombra della forzatura, e a far intendere meglio come il senso classicistico dei partiti decorativi e la disposizione delle storie non appartengano a un estro puramente casuale.
È necessario tuttavia insistere sul concetto di partito decorativo, al quale, alla fin dei conti, vengono ricondotti gli emblemi dell’antichità romana che abbiamo già indicato. Il partito decorativo quale unità di senso compiuto deve innanzitutto «dare decoro», ornare, ravvivare otticamente un ambiente o elemento architettonico; in secondo luogo, quando sussistano valori emblematici e simbolici precisi, legati tradizionalmente a determinati motivi iconici, deve conferire non un «decoro» generico ma «un certo tipo» di decoro in rapporto a intenzioni ben chiare.
Sta di fatto che s’intersecano tra loro due esigenze altrettanto importanti, con la prevalenza però dell’ornato su tutto il resto: ciò vuol dire dell’organizzazione compositiva nei confronti della logica dei significati. In altri termini, dal punto di vista dell’artista, questa duplicità si traduce in un largo margine di libertà o di arbitrio.
È quanto possiamo constatare proprio nella sala del Consiglio dove i singoli elementi sembrano scomparire nella ricchezza di stimoli ottici diffusa tra soffitto, pareti e arredo mobile. Ma possiamo anche osservare la libertà e l’abilità combinatoria di Domenico Bruschi nella riduzione a ornato degli emblemi e simboli, impiegati insieme ad altri fregi più usuali, sottolineandone solo pochi affinché, in tal modo, riacquistassero il loro quoziente di significato.
Restano isolati i due emblemi disposti verticalmente sulla parete a occidente tra la porta e i due riquadri; sono resi evidenti dal forte rilievo degli stucchi e dalle dorature. Questa sottolineatura ha indubbiamente un senso. Essi riprendono infatti la forma delle insegne militari dell’antica Roma e, come s’è visto, sostituiscono nella tavoletta il più noto e glorioso S.P.Q.R. con il nuovissimo S.P.K.
Bisogna dunque ipotizzare non tanto una licenza, in questo caso, quanto una interpretazione dotta del nuovo assetto politico, degna sia del Bruschi che del Vivanet. Ricalcando i signa delle formazioni legionarie, forse si allude sia alla struttura delle coorti che avevano emblemi particolari, e pertanto, come qui, anche una testa di leone; sia alla presenza nelle legioni dei popoli italici. Così si spiega la traduzione della sigla dei Quiriti in quella territoriale.
Quest’idea della struttura disciplinata e guerriera dello Stato vedrebbe quindi le coorti leonine della Provincia di Cagliari partecipare alla difesa e al progresso comune, come Roma aveva insegnato nel passato.
Nel registro decorativo più alto della parete, dove gli stucchi costruiscono una concavità, inesistente nella muratura, si dispongono i simboli del potere, della vittoria e della gloria: sempre suggeriti dal mondo romano. Le figure bianche delle Vittorie alate, anch’esse ben segnate nel rilievo di stucco, contrappuntate dalle dorature, sono un ‘diretto rinvio ai monumenti celebrativi dei grandi trionfi degli imperatori. Le loriche araldiche, le palme e le aquile, tutte dipinte, danno all’insieme continuità ornamentale e ritmo colmando visivamente i grandi intervalli tra le figure in stucco e, al tempo stesso, confermano il senso ideologico che deve essere attribuito all’insieme: l’aquila, emblema della legione e simbolo imperiale, la palma simbolo della vittoria come l’alloro del trionfo. Cosi il fregio vegetale con i suoi fiori e le sue volute è direttamente ispirato dai motivi ornamentali dell’Ara Pacis.
Punti salienti vengono ad essere la rappresentazione ai quattro angoli dell’Italia e (forse) della Sardegna al centro delle due pareti lunghe, attraverso il simbolo della nave che porta gruppi eroici con vittorie alate sormontate dallo scudo Savoia coronato, nel primo caso, dallo scudo della città di Cagliari, nel secondo. Le navi hanno forma romana, ed esemplati liberamente su apoteosi classiche sono i gruppi.
Tanto spreco di citazioni classicistiche doveva senz’altro ribadire nei confronti di tutti, rappresentanti politici e popolo, quell’idea di Stato forte, ordinato, leale nei confronti del moderno imperator, che abbiamo visto affiorare persino negli elementi più lontani o meno appariscenti della decorazione.
D’altra parte, l’idea della potenza militare e morale quali attributi specifici del sovrano, non trova naturalmente un’espressione soltanto classicistica. «Naturalmente», se teniamo conto della raccomandazione del Parlamento per il progetto dell’Altare della Patria a operare figurativamente e simbolicamente quella sintesi della storia d’Italia, puntualmente rispettata dall’Amministrazione provinciale di Cagliari.
Quell’idea, prevalentemente figurata con elementi del mondo romano, viene rinforzata e portata cronologicamente più avanti attraverso l’evocazione, tra medioevaleggiante e barocca (non sembri un paradosso!), degli emblemi della cavalleria: scudi, elmi con ridondanti cimieri, nel primo registro del fascione decorato, tra girari fitomorfi in stucco.
Non è il caso di enumerare i monocromi che corrono ai bordi del grande rettangolo decorato del soffitto, con gli inserti dei mostri marini o genericamente di una ingegnosa mitologia del mare che riporta in luce le interpretazioni rinascimentali, meglio manieristiche, dei rilievi classici. Essi sono tra i «pezzi» ornamentali più interessanti per il disegno e per le combinazioni figurali. È probabile che il senso del richiamo vada stavolta in direzione culturale e artistica, anche delle istituzioni del mestiere, così ben fondato sulle scuole accademiche dal Rinascimento in poi: una sorta di sfida creativa del Bruschi alla propria formazione, alle metafore consumate e, ad un tempo, riaffermazione di un valore.
Bisogna aggiungere, arrivati a questo punto, qualche altra considerazione più interna alla formalità realizzata, perché l’opera di Domenico Bruschi, anche in questo caso, appaia nella luce che più le si confà, non sopraffatta dalla artificiosa illuminazione delle iconologie dotte, e nemmeno abbassata dallo schermo della sospetta ripetizione di formule stereotipate.
I motivi ornamentali che, presi isolatamente, chiariscono il senso del messaggio ideologico diffuso sulle pareti e sulle volte del Palazzo viceregio, non vengono usati dal Bruschi semplicemente nella loro esemplarità simbolica bensì seguiti nelle loro caratteristiche formali, nella loro particolarità figurativa: vale a dire entro l’inevitabile ambiguità d’immagine che il gioco artistico permette.
Pertanto, mentre resta chiara la fonte iconografica, ogni immagine viene piegata alla funzione di ornato. È mutata la disposizione tradizionale della palma in quanto simbolo: essa viene qui ripresentata dall’artista nella sua qualità vegetale, come si conviene a un seguace del naturalismo, entro un gioco compositivo, comunque, non imposto dal suo significato ma dai rapporti cromatico-formali con le altre parti.
Sotto analoga interpretazione possiamo leggere, in trasparente evidenza, gli altri inserti classicistici, che abbiamo notato come derivati da icone dell’antichità, tanto diffuse e chiare ai loro tempi quanto emblematiche e sacrali allora e in seguito: l’aquila, la corazza, le volute vegetali ispirate agli ornati dell’Ara Pacis Augustae.
L’evocazione di tali remoti precedenti ha, per un attimo, fatto scorrere un brivido di dramma storico, forse eccessivo, nelle decorazioni del Palazzo. Un brivido che passa, quasi innocentemente, inavvertito, sommerso com’è da una scorrevole continuità di stimoli visivi che non conoscono pause. Così, mentre a chi si proponga un’osservazione analitica delle forme appare innegabile l’ispirazione e altrettanto palmare la certezza dei significati presenti e della finalità che esse realizzano, si è costretti a prendere atto di un uso arbitrario dei vari segni o delle variazioni introdotte dal Bruschi a vantaggio di una più tranquilla fruizione della macchina ornamentale, a dispetto, si direbbe, dell’impegnativo memento dichiarato dalla sigla S.P.K.
L’aquila spande le sue ali e dipana quasi le penne, non tanto per un’enfasi simbolica quanto per coprire superfici e contrastare i verdi delle palme con i suoi rossi bruciati. Tutto il contrario, quindi, della compatta e un po’ sinistra figura che l’antichità ci ha tramandato, per esempio nel cammeo romano, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna [23].
La lorica vuota, segno delle spoglie di nemici annientati, portata nei trionfi, viene ridotta ai contorni con colori tenui e dorature sottili, come sbiancata: privata dunque del suo spessore di oggetto e dei perentori concetti che rappresentava.
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