Decorazioni del Palazzo Viceregio di Cagliari – Frammenti classicisti e modernità
Il fogliame si dispone come un’onda flessuosa che lega le parti tra loro e le ingloba nel suo moto più che come un rilievo filologicamente preciso: anzi i riccioli, i rami, le foglie si aprono e si sviluppano in un contrappunto planare di marroni, di verdi e di picchiettature dorate.
È chiaro che, coerentemente con gli altri casi osservati nel Palazzo, Domenico Bruschi si ritrova più creativamente nelle vesti di decoratore che in quelle di pittore di storia e che, addirittura, nell’insieme, i suoi affreschi illustrativi apparirebbero alquanto spenti e persino noiosi se non fossero riscattati dalla più vivace vena espressa negli ornati veri e propri.
Anche le figure nude scolpite sulle porte, o quelle divinità marine che omano con rilievi fortissimi e animano la pesante cattedra della presidenza, mentre ricercano gli echi della mitologia, s’incontrano più decisamente con le immagini che un certo filone tra neoclassico e romantico aveva accreditato nel corso della prima metà dell’Ottocento soprattutto in Francia, nell’ambito della pittura ufficiale: dal Cabanel sino a Ingres, e ancora presenti a Roma con certo allegorismo naturalistico alla Nino Costa. Si pensi, per quest’ultimo, alla Ninfa nel bosco e, in seguito, al Rutelli della Fontana di Piazza Esedra. Con le dovute cautele, naturalmente, e la necessaria attenzione alle differenze di livello e di risultato.
Si può affermare comunque che il Bruschi abbia mostrato di avere a cuore, come esito artistico finale, più che la calma e uniforme continuità plastica, un effetto di frantumati riflessi, di brillii ottenuti sia lasciando le tracce delle sgorbiature e dei punteruoli sul legno per animare le superfici, sia, nel caso della cattedra della presidenza, evidenziando i contrasti luministici con un fitto gioco di forti rilievi e di incavi profondi.
Il classicismo quindi, diventa, una volta di più, eclettismo, premonizione liberty.
Anche qui, alla fine, la sensibilità e l’esperienza di un eccellente decoratore prevalgono sullo sforzo programmatico in senso dotto, che ci si attenderebbe sulla base delle intenzioni che hanno ispirato inizialmente il progetto.
A conclusione di questo excursus analitico è forse necessario, ancora, tracciare un giudizio di valore, aggiungendo qualche altra osservazione che renda esplicito quanto è stato già espresso di volta in volta a proposito di singoli aspetti dell’opera e della personalità di Domenico Bruschi.
È chiaro che il nostro artista agiva all’interno di limiti alquanto obbliganti, posti dalla sede particolare e dai committenti. Questi limiti sono stati osservati in larga misura, con probità professionale, si direbbe quasi ai confini di un sicuro e illustre artigianato. E il giudizio, in questo senso, dovrebbe fermarsi a registrare un solido grado di dignità. Valutazione positiva che, però, tocca appena la sfera del mestiere. Per quanto si possa correre il rischio di esprimere pareri troppo soggettivi, che nascono maggiormente dal complesso di preferenze personali e si pongono sull’opinabile terreno del gusto, vale la pena di affrontare un giudizio più articolato che tocchi in maggiore profondità la sfuggente sfera dell’artistico. Sarebbe, persino in questa dimensione piuttosto idealistica – cioè astratta -, già sufficiente la valutazione anodina di «dignità professionale». Ma il tiro va spostato in direzione più problematica e perciò ragionata.
Rifacendoci pertanto al concetto empirico di gusto e, in parte, alle chiare proposizioni enunciate da Hume già nel ‘700, dovremmo cogliere in che cosa consista la novità, e a un tempo la fruibilità (facility) delle forme usate dal Bruschi relativamente. ben inteso, allo standard del suo tempo.
Abbiamo di volta in volta costatato che la cultura artistica e le opere del Bruschi sono tutte dentro il suo tempo, restando radicate soprattutto alle angolazioni precostituite o possibili allora in Italia. Addirittura, entro questo orizzonte teorico-pratico, la sua formazione e i suoi slanci non superano mai le conseguenze figurative delle contese che si accendevano verso la metà del secolo negli ambienti artistici meno quieti, restando però abbondantemente al di sotto della relativa avventura dei macchiaioli.
Così il suo «realismo» o anche il «verismo» insistentemente richiamato nei pochi scritti che ci ha lasciato, non possono essere intesi in senso courbetiano, o, per stare in Italia, alla maniera della scuola napoletana o dell’ultimo Vincenzo Vela; tanto meno in quello ben più ricco di spessore teorico dei macchiaioli. Il risultato osservabile nel Palazzo, sotto questo profilo, dev’essere ricondotto all’interno di quel «realismo» quale si affermò allora nella terminologia critica e in tendenze individuali di diversi artisti, che consisteva nello sforzo di dare un qualche grado di attualità e di attendibilità empirica al «quadro di storia»: come dire la semplice sostituzione delle allegorie mitologiche-religiose idealizzate con una sorta di fisiognomica dal vero e un’attenzione al dettaglio illustrativo veristico, all’effetto di flagranza che doveva pervadere l’evento «immaginato».
Nelle figurazioni storiche del Palazzo viceregio, raramente il Bruschi oltrepassa (e sempre di poco) questi limiti. La sua è sempre «visione», entro le guide imposte dalle scuole. Abbiamo anche visto come la «visione» stessa risulti più inventiva nelle allegorie dove emerge meglio la sua fantasia di esperto dell’ornato, di scenografo.
È quindi nell’area della decorazione e dell’apparato scenico che va visto l’apporto più autentico e, in qualche modo, aggiuntivo che il Bruschi dà alla cultura del suo tempo. Entro questi limiti si può anche affermare che il corpus figurale realizzato a Cagliari dall’accademico perugino entri, nel suo insieme, a buon diritto nella sfera dell’artistico con una sua indubbia dignità, pur restando del tutto nei livelli medi italiani della fase post-risorgimentale.
In nessun caso, pertanto, ci troviamo al cospetto di capolavori, di cui quel momento culturale fu estremamente avaro, ma piuttosto di fronte a una delle più interessanti e compiute testimonianze del gusto del periodo, in Italia.
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