Decorazioni del Palazzo Viceregio di Cagliari
Il contesto sardo
Se distogliamo l’attenzione dal Palazzo viceregio e ricerchiamo un piano di rapportamento più comprensivo nella cultura artistica a Cagliari e in Sardegna nel corso di quegli ultimissimi decenni del XIX sec., possiamo dare a quest’opera del Bruschi un valore relativo più appropriato alla sua importanza locale.
Le difficoltà strutturali e politiche che attraversava la Sardegna, afflitta da tutti i mali del sottosviluppo endemico – accentuati da calamità diverse – mentre giustificano un quadro culturale, illuminato sia pure da fiammate e da personalità interessanti ma sostanzialmente depresso, sottolineano – come è già stato osservato – il carattere esemplare della scelta fatta dall’Amministrazione. Non è il caso di insistere oltre sul peso giocato in più direzioni dal momento politico; se ne può, ora, tener presente un aspetto particolare: quello che per molti versi lo inquadra in un contraddittorio processo di integrazione culturale delle forze intellettuali dell’Iso1a nell’area civile dello Stato unitario.
Al riguardo sarebbe necessario ricostruire un filo storico troppo impegnativo e lungo perché possa essere affrontato qui, partendo da un oggetto tanto circoscritto; si tratta in fondo di connotare il discorso di senso più generale allargando il punto di vista.
La questione, in definitiva, potrebbe essere contenuta dal la seguente domanda: le decorazioni delle sale del Palazzo viceregio hanno costituito – e in quale misura – un modello nuovo in un’area culturale periferica e persino «disorganica» rispetto alla tradizione artistica e alla struttura civile italiana, quale la Sardegna era?
Per rispondere in modo comprensibile al difficile quesito è innanzitutto necessario ripercorrere un rapido itinerario di talune situazioni storiche, seguendo un taglio, è bene dichiararlo, che non può che essere interpretativo.
Vediamo, dunque, i tratti salienti.
Nel corso dell’Ottocento «- insistiamo sul livello della società civile – la Sardegna vive in una situazione di difficile confronto rispetto al Piemonte prima e, in seguito, alla realtà neonazionale.
L’Isola – è cosa nota – dispone di tradizioni e istituti diversi, internamente differenziati, spesso scarsamente conciliabili con il complesso di rapporti che viene a riguardarla stabilmente a partire dal 1720.
Soggetta per quattro secoli circa a egemonie di marca iberica (Aragona e Spagna) ne assorbe necessariamente alcuni tratti culturali caratterizzanti, soprattutto nelle sfere della dirigenza: dalla lingua ufficiale all’assetto di massima della società, sino alle forme architettoniche per gli edifici di maggior rango nella vita religiosa e civile.
Al tempo stesso, l’articolata realtà popolare, dalle maestranze artigiane ai pastori e contadini delle zone interne, mantiene parallelamente e sorprendentemente un suo caratteristico corpus immaginativo, una costanza di preferenze che si evolvono con lentezza, e, si direbbe, dentro una presumibile struttura sotterranea e resistente, tanto da condizionare e piegare l’efficacia di tutti i modelli culturali con i quali è condotta a confrontarsi. Fatto, questo, che non potrebbe essere sufficientemente spiegato nei vari aspetti con la semplice analisi economica; forse serve meglio una constatazione riguardante il carattere della dominazione iberica che giustifica in buona misura il persistere, in una Sardegna dominata per quattrocento anni, di un quadro antropologico «speciale» e la conseguente divaricazione di civiltà. Questo carattere consiste nell’assenza di un controllo interessato a tutti i settori specifici dell’organizzazione sociale, che comprendesse un progetto d’assorbimento culturale capillare attraverso scuole, la volontà precisa di penetrazione nelle zone interne e di una loro appropriazione civile, trasformando la campagna e introducendo relazioni e scambi di segno diverso.
In realtà la Sardegna fu soprattutto un oggetto strategico controllato da poche concentrazioni «cittadine» di potere, e le relazioni più frequenti con il centro furono guidate dalla rapina di risorse. In altri termini, un quadro di abbandono e non di partecipazione.
Al contrario, il piccolo Stato piemontese impone un sistema di controllo «forte» e moderno, accentratore ma diffuso.
Questo modello sta all’origine non solo di conflitti ma anche di trasformazioni radicali, soprattutto nelle aree urbane.
Diminuiscono le alternative culturali ai vari livelli; prevalgono per lo stesso motivo le scelte obbligate per chiunque voglia raggiungere posizioni di valore dirigenziale. Dalla formazione tecnico-scolastica per le carriere burocratiche e professionali sino a quelle riguardanti le arti e i mestieri, tutto finisce per passare attraverso il filtro delle istituzioni e delle scelte ufficiali. D’altra parte è normale che un potere centralizzato e modernamente strutturato produca con maggior rigore i propri tecnici e intellettuali e s’imposti sulla stratificazione delle competenze: vale a dire che produca specializzazione e tenda, a un tempo, a ridurre gli spazi di autonomia, la quale, quando si dà, assume più o meno i caratteri della emarginazione.
Gli ambiti riservati tradizionalmente alla creatività popolare, solitamente poco controllabili, si staccano sempre più dai livelli del1’ufficialità, accrescendone il naturale divario e diventando, concettualmente e praticamente, folklore.
L’osmosi tra i due grandi cicli della circolazione culturale – popolare e culto – si riduce, a vantaggio della sfera protetta, rendendo tra l’altro scarsamente efficace l’attività di quegli importanti mediatori che sono gli accreditati «artisti» popolari.
Questi ultimi, nell’Ottocento sardo, ebbero un peso e una dignità forse solamente nella poesia.
Nel settore proprio delle arti figurative il divario prodotto dalla specializzazione induce una progressiva perdita di organicità d’immagine quale si era diffusa e combinata nei secoli precedenti, quando le differenze si davano, all’interno di medesime strutture di fondo, relativamente ai livelli qualitativi, dal mediocre all’eccellente.
Si affermano, al contrario, artisti locali «colti» e anche dotati, quali Giovanni Marghinotti e Gaetano Cima, e potremmo aggiungere Andrea Galassi e il Conte Carlo Boyl, che introducono autorevolmente i modelli di scuola italiana. Dietro queste nuove figure si delineano modeste personalità di seguaci (il Cubello e il Caboni, per esempio), esili pittori dall’apprendistato insufficiente (il Loffredo, per esempio), e certi autodidatti poco credibili (con qualche rarissima eccezione, Giacinto Satta, per esempio); più in generale, alla fortuna e al credito degli artisti ufficiali di formazione accademica, si contrappone, se non il deserto, un giro artistico anonimo e mediocre.
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