Il Viceré del Bastione
Un inizio difficile.
Il compito che era stato affidato al barone non era certo semplice. Egli non solo doveva gestire la delicata fase di trapasso al regime piemontese, ma anche adoperarsi per realizzare il principale obiettivo politico sabaudo, quello cioè di mantenere una continuità formale con il precedente sistema di governo, in modo che il cambiamento di dinastia risultasse poco percepibile da parte dei sudditi sardi. Il viceré doveva quindi conformarsi agli usi della Spagna “in riguardo alle Leggi, Costituzioni et Usanze cerimoniali, così nello scrivere che in altra cosa”, nonché “alle maniere di quei Popoli e non permetterete che si dia alcun segno di disprezzo dei loro costumi naturali e delle loro usanze[7]. Il rispetto della legislazione spagnola e delle consuetudini locali non era però semplice da conciliare con i molti problemi che il Pallavicino fu costretto fin dall’inizio ad affrontare.
La situazione politica, sociale ed economica si era infatti molto deteriorata nel corso dei disordini dell’ultimo ventennio, causando il sovvertimento delle regole di governo. Le vicende belliche in cui era stata coinvolta la Sardegna, avevano portato alla nascita di due fazioni nobiliari, una filospagnola e l’altra filoaustriaca, che fornirono il pretesto per continuare la faida tra consorterie e gruppi familiari rivali, che aveva caratterizzato la società isolana già nel XVII secolo [8]. La Spagna contava su molti simpatizzanti e il viceré nel settembre 1720 scriveva a Torino: “Il clero è totalmente devoto agli Spagnoli, così come la maggior parte della nobiltà”[9]. Egli avrebbe voluto favorire la nascita di un movimento filogovernativo, ma le intenzioni del sovrano erano diverse e miravano a “trattare egualmente li seguaci dellluno e dell’altro partito con lasciarli però divisi, onde evitare che si possano unire, per ricavare nell’occasione quel buon uso che la dualità può produrre”[10].
Sulla base di tali direttive vennero affrontate importanti questioni come la riorganizzazione dell’apparato amministrativo locale e il reclutamento degli ufficiali da inserire nei posti rimasti vacanti a causa della partenza del personale spagnolo. A riguardo non venne operata alcuna discriminazione, così che l’elezione dei nuovi funzionari suscitò un’impressione positiva nell’opinione pubblica, dal momento che tutti avevano potuto osservare “non esservi stata parzialità né per il partito de’ spagnoli, né per quello dell’Austriachi”[11]. Alla segreteria viceregia giunsero subito centinaia di suppliche, tanto che il problema degli impieghi si configurò fin dall’inizio come uno dei maggiori banchi di prova del nuovo regime. Lo stesso Saint Remy il 7 settembre 1720 scriveva al re che sarebbe stato possibile “guadagnare liaffetto della Nobiltà, del Clero e del popolo solo elargendo loro dei benefici e di conseguenza accordandogli tutti gli impieghi che detengono e che gli impediscono di morire di fame”; “Se c’è un impiego da assegnare”, osservava allora un collaboratore del vicere, “ci sono trenta persone che lo domandano”[12].
Nell’affrontare la spinosa situazione il barone non fu solo, ma poté contare sulla presenza e sull’esperienza del contadore generale Giovanni Giacomo Fontana, che già era stato uno dei principali ministri piemontesi in Sicilia, e sull’aiuto del segretario Labiche, che il ministro degli Interni Mellaréde aveva inviato in Sardegna per coadiuvare il Pallavicino[13]. Intorno al Labiche si costituì la segreteria di Stato viceregia, che rappresentò l’anello di congiunzione tra governo centrale e periferia, esercitando altresì una funzione di controllo sui viceré.
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