Il Viceré del Bastione – Un inizio difficile
Il re allora intervenne, emzmando nell’ottobre 1720 delle direttive riguardanti i compiti dell’intendente, che furono ulteriormente precisate col regolamento del gennaio 1721[19]. Nonostante ciò il conflitto tra i due uffici non venne risolto: il Saint Remy nel dicembre 1720 era tornato a lamentarsi del Capello, sostenendo che questi decideva “a suo piacere di tutto quello che gli salta in mente”, mentre sei mesi più tardi il Labiche informava la segreteria degli Interni che l’intendente aveva sì delle qualità, “ma io mi rendo conto che il desiderio di indipendenza mescolato alllambizione lo fanno spesso agire in modo capzioso, il che lo ha reso odioso a molti”[20]. Il governo piemontese non poteva tuttavia tollerare che la polemica tra i suoi funzionari continuasse, così nell’aprile 1721 fu lo stesso Mellaréde a informare il barone che il re non voleva più sentire parlare di litigi tra lui e il Capello[21]. La volontà sovrana venne del resto ribadita due anni dopo nelle istruzioni rivolte al successore del Pallavicino, l’abate Alessandro Doria del Maro, dove veniva sottolineato che siccome “l’Economico è una delle basi più essenziali per sostenere gli Stati e particolarmente il Regno di Sardegna, che non ci somministra entrate sufficienti per mantenerlo”, uno dei principali doveri del viceré era quello di agire “di buon concerto coll’lntendente Generale, a cui è appoggiata l’intiera amministrazione di detto Econornico”[22].
In realtà, a dispetto delle buone intenzioni di Torino, la separazione tra giurisdizione economica e direzione politica rimase piuttosto confusa e i contrasti tra viceré e intendente furono una costante nella storia della Sardegna settecentesca, come dimostrano ampiamente i documenti d’archivio anche per gli anni successivi[23]. Al di là infatti dei motivi personali, alla base del conflitto vi erano problemi di carattere costituzionale, relativi alla diminuzione dell’autorità viceregia e alla redistribuzione dei poteri all’interno delle istituzioni locali, conseguenza dell’indirizzo assolutistico assunto dalla monarchia sabauda.
Nel caso dell’Intendenza generale si voleva introdurre nelle cause fiscali una procedura rapida e “sommaria”, certamente vantaggiosa per il sovrano, ma che era incompatibile con la consuetudine del Regno, dove la giustizia veniva amministrata secondo meccanismi che implicavano più gradi di giudizio e coinvolgevano diverse magistrature, dalla Reale Udienza al tribunale del Patrimonio, al Reggente la Real Cancelleria, fino alllultima istanza, eminentemente politica, rappresentata dal viceré. Si trattava di una gestione per così dire “collegiale” del processo giudiziario, che mirava a rispettare l’autonomia locale, coinvolgendo nell’amministrazione anche i ceti locali. Vittorio Amedeo II voleva del resto approfittare delle novità introdotte da Filippo V di Spagna, che aveva creato un intendente apposito per la Sardegna, conferendogli ampi poteri. Se però questi potevano essere giustificati in tempo di guerra, non potevano essere tollerati in pace, tanto più che contrastavano apertamente con la legislazione vigente e venivano considerati illegali dai sudditi.
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