Il Viceré del Bastione – Un inizio difficile

 
 

Il Saint Remy si era subito reso conto di ciò e fin dal febbraio 1721 aveva scritto al re, sottolineando che la difficoltà consisteva proprio nel fatto che l’intendente potesse giudicare sommariamente le cause “che si disputeranno davanti a lui…senza atti formali, sul posto e deplano”, poiché “in questo Paese non si conosce affatto tale procedura”. A meno che non si volessero commettere “degli abusi, come fece l’Intendente spagnolo”, essa non sarebbe stata accettata e avrebbe trovato una forte opposizione nei giudici sardi. Era dunque necessario un editto apposito che stabilisse la nuova normativa, comprese le competenze dell’intendente, e abolisse la legislazione vigente in materia, ma questo era proprio quello che il monarca sabaudo non intendeva fare, in quanto un atto formale avrebbe rappresentato una novità che contrastava con la pretesa continuità con il passato proclamata dalla corte torinese[24].

Dal canto suo il barone non esitò a chiamare in causa lo stesso ministro degli lnterni, sottoponendogli unialtra questione, vale a dire l’abolizione del tribunale del Patrimonio e delle cariche di mastro razionale e di procuratore reale, tutti uffici importanti, che avevano rappresentato una cospicua fonte di impiego per gli abitanti del Regno, nonché uno strumento di controllo dell’amministrazione finanziaria da parte dei sudditi[25]. Senza mezzi termini il viceré riferiva al Mellaréde che la soppressione delle magistrature economiche aveva suscitato “un bel po’ di rumore” tra la popolazione; certo, gli argomenti usati dal Pallavicino nei confronti dei suoi eminenti inrercolutori torinesi erano funzionali a ribadire la centralità della figura viceregia, che egli sentiva sempre più svuotata di potere dalla riorganizzazione politica e istituzionale portata avanti dal governo centrale. Il Pallavicino ripeteva dunque con insistenza che “non si creerà altro che confusione, se tutto non dipende dal Viceré, poiché nessuno terrà a freno la Nobiltà, il Clero e il terzo Stato se non l’autorità del Viceré, che essi riveriscono come un oracolo; né creda Monsignore che io ardisca elevarmi al di sopra degli altri, ma sia ben sicuro che in questo Regno nulla è stato rnai eseguito se non per volere del Viceré e se volessi inviarne degli esempi in ogni genere di materie, ce ne sarebbero di che farne un volume. Mai è uscito dalla Tesoreria un solo soldo, né una sola ricevuta che non sia stata firmata dal Viceré; mai è stata data una delega né patente che per mezzo del Viceré[26].

Nel sostenere la propria autorità, il Pallavicino si richiamò spesso a quanto stabilito dalle leggi e usanze del Regno, a cui d’altronde gli era stato ordinato di attenersi. Nel giugno 1721 sosteneva che i Capitoli di Corte davano al viceré “una totale Competenza su tutte le questioni” e di avere letto a proposito le Prammatiche, i Capitoli di Corte, la Carta de Logu: “dappertutto ho visto che niente si faceva se non per ordine dei Viceré, i quali dovevano poi rendere conto di tutto al sovrano”[27]. Il fatto che gli si rimproverasse di cercare continue beghe con l’intendente, doveva sembrare strano al barone, visto che egli non faceva altro che richiamarsi alle leggi esistenti, ubbidendo proprio alle indicazioni di Vittorio Amedeo II, che aveva ordinato di “uniformarsi in tutte le cose a ciò che praticavano gli Spagnoli al tempo di Carlo II”[28].

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