Il Viceré del Bastione – Un inizio difficile
Abbiamo già visto come finì la questione: il re nel gennaio 1721 spedì al Saint Remy nuove istruzioni riguardo l’intendente, “del modo che deve regolarsi…et intendiamo che venga puntualmente osservata anche la vostra Autorità, quando il bisogno lo richieda”; nel biglietto che accompagnava il documento, lo stesso Mellaréde assicurava che il Capello “non avrà più modo in futuro di ignorare ciò che deve fare nei riguardi di Vostra Eccellenza[29]. La soppressione del tribunale del Patrimonio e di conseguenza del procuratore reale veniva comunque confermata, come il trasferimento delle loro funzioni all’intendente generale, solo che costui era tenuto a conferire col viceré “nelle sue principali operazioni”[30]. Lungi dal voler aumentare o diminuire le prerogative di questo o quel ministro, la corte piemontese intendeva piuttosto introdurre un sistema per cui i responsabili dei vari dipartimenti (intendente per l’economia, reggente per la giustizia, viceré per la politica), dovevano riunirsi in giunte e discutere tra loro, occupandosi soprattutto dei problemi più gravi, mentre gli affari ordinari doveva essere sbrigati all’interno delle singole amministrazioni. In tale contesto il viceré non era più concepito come il supervisore di tutta l’attività di governo, dotato di ampia capacita di intervento, bensì il coordinatore di un lavoro collegiale. Non si trattava certo di un impianto particolarmente innovativo, se si pensa al contemporaneo modello francese e spagnolo, quanto della razionalizzazione di una struttura che in Piemonte si era affinata nel lungo periodo bellico a cavallo tra Sei e Settecento e aveva trovato compimento nella riorganizzazione delle segreterie e dei consigli finanziari realizzata nel secondo decennio del XVIII secolo, che aveva stabilito nuove gerarchie all’interno dell’apparato assolutistico sabaudo, alla cui sommità dominava ormai incontrastato il monarca.
E un principe come Vittorio Amedeo II non voleva essere contraddetto dai propri subalterni, né si sentiva obbligato a dare loro spiegazioni. Nella lunga lettera del 23 aprile 1721, con cui intendeva chiudere definitivamente ogni questione in merito all’abolizione dei vecchi tribunali finanziari, egli ricordava infatti una volta per tutte che “i sovrani non devono rendere ragione di quello che fanno, dovendo tutti essere persuasi che i loro ordini e le loro decisioni non mirano ad altro che al proprio servizio e a quello del bene pubblico”. Quanto ai poteri conferiti all’intendente, il re dichiarava al Pallavicino che la patente con cui erano stati definiti non era in contraddizione con la legislazione vigente: “voi capirete dal suo contenuto che noi abbiamo stabilito l’estensione della sua giurisdizione in conformità con le Prammatiche, dalle quali non abbiamo mai preteso di allontanarci”[31]. Di fronte a questi argomenti al barone non restava che ubbidire, salvo ribadire la propria buona fede, ricordando che “per quel che riguarda gli affari e il governo di questo Regno” lui si regolava sempre “secondo quanto si trova stabilito dalle Prammatiche”[32].
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