Il Viceré del Bastione – Potere viceregio e autonomia giudiziaria
Le perplessità sollevate dal viceré in merito alla sopressione dei tribunali patrimoniali e ai poteri dell’intendente venivano del resto condivise da gran parte dei sudditi sardi, tanto che a Torino era nato il sospetto che il Saint Remy si fosse fatto condizionare dai locali, soprattutto dai membri del ceto togato. Non si spiega altrimenti il rimprovero mosso dal sovrano al proprio ministro nelle già citate istruzioni dell’aprile 1721, in cui lo accusava di aver ciato ascolto a pareri interessati e gli ricordava che “i sudditi non devono essere a conoscenza, ma soltanto sottomettersi alle nostre decisioni”. Il Pallavicino non doveva “permettere loro di entrare in qualche ragionamento con voi a tale riguardo, per non fornire l’occasione di fare delle insinuazioni, che di norma non mirano ad altro che all’interesse personale”[33].
In effetti il mancato ripristino del tribunale del Reale patrimonio e del Razionale aveva creato apprensione tra l’ufficialità sarda, che vedeva svanire un importante sbocco professionale, proprio in un momento in cui si poneva il problema della riorganizzazione delle magistrature isolane e della distribuzione dei posti all’interno dei nuovi organici. La delicatezza della questione era stata sottolineata già nelle istruzioni del maggio 1720, che ordinavano al viceré di prestare attenzione “che la Giustizia venga amministrata con imparzialità” e gli fornivano sintetiche informazioni sui principali tribunali: la Reale Udienza, con giurisdizione suprema su tutta l’isola e la Reale Governazione di Sassari, con funzioni di corte dlappello per la Gallura e il Logudoro[34].
La Reale Udienza era da quasi due secoli la magistratura più importante: creata da Filippo II nel 1564, era stata costituita dapprima da un’unica sala civile con quattro giudici (due spagnoli e due sardi), a cui era stata aggiunta nel 1651 una sala criminale composta di quattro magistrati, tutti locali. Nel suo archivio veniva custodita la quasi totalità degli atti amministrativi, come riferiva nell’agosto 1720 il segretario Labiche e ciò testimoniava la centralità del tribunale nella struttura costituzionale del Regno. Per tale motivo la Reale Udienza aveva sempre goduto di ampie prerogative, che oltrepassavano llambito puramente giudiziario e che avevano portato al suo coinvolgimento nelle lotte tra fazioni. Se dunque il reclutamento degli ufficiali appariva in generale un problema difficile da affrontare per il regime piemontese, ancor più arduo sembrava nel caso dei giudici dell’Udienza, considerato il prestigio dell’istituzione.
Al momento del passaggio dei poteri ai Savoia l’organico del tribunale era ridotto, così che alla cerimonia di giuramento del viceré erano presenti soltanto quattro giudici della suprema Corte: Nicola Frediani, Pietro Pablo Palmas, Pietro Meloni e Angelo Fanari[35]. Soltanto il primo tuttavia poteva vantare una certa anzianità di servizio (la sua firma compare infatti in calce alle sentenze a partire dal 1711), mentre Palmas e Fanari erano stati nominati nel 1718[36]. La strategia adottata dal governo sabaudo fu di confermare in via provvisoria i titolari dell’ufficio, senza discriminazioni. In un secondo tempo le nomine vennero fatte, tenendo conto di precisi requisiti e furono rimosse le persone che non offrivano opportune garanzie di fedeltà politica.
Tale per esempio il caso del citato Palmas, giudice nella sala civile e notoriamente filospagnolo, sostituito poi col Frecliani su suggerimento del Pallavicino, il quale ebbe un ruolo importante nell’orientare le scelte sovrane e nel favorire un ricambio ai vertici dell’amministrazione giudiziaria. Nell’ottobre 1721 il personale sardo della Reale Udienza risultava notevolmente rinnovato, giacché appena due membri su sei erano stati presenti prima del 1720, a riprova che anche in questo caso, nonostante la proclamata continuità col passato, la politica sabauda aveva operato un netto cambiamento[37].
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