Il Viceré del Bastione – Potere viceregio e autonomia giudiziaria
Il Saint Remy aveva dato adito a tale critica soprattutto quando era intervenuto nella revisione di alcune sentenze e in occasione delle nomine agli uffici minori dell’amministrazione, le cui terne di candidati dovevano essere stilare dalla Reale Udienza[44]. Il fatto che il barone nel giugno 1721 sentisse il bisogno di riferire a Torino che egli sottoponeva alle due sale del tribunale le suppliche pervenutegli, dichiarando di attenersi al responso dei giudici, non era tanto il segno di un buon rapporto di collaborazione, quanto delfinsorgere dei primi reciproci contrasti[45]. Del resto, l’atteggiamento del Pallavicino non aveva suscitato perplessità soltanto tra i sardi, bensì tra gli stessi piemontesi. In questo senso una testimonianza importante è offerta dalla corrispondenza di Giuseppe Antonio Maino, che in quegli anni svolse il ruolo di informatore segreto del governo[46].
In una serie di lettere della seconda metà del 1721, egli forniva un quadro dell’azione del viceré non privo di ombre: “ll Barone di S.Remy lavora molto…, è geloso della sua autorità, e vuole far tutto egli stesso per zelo. Ha letto tutte le Prammatiche e con questo crede di decidere tutto; fa molti decreti decisivi, cosa non ben intesa da quei Regnicoli, assuefatti sotto il Governo spagnolo a litigare… Il detto barone è per altro in concetto d’uomo zelante del servizio di V. Maestà, ma violento, e di prima impressione si dimostra molto disinteressato, e quanto è temuto altrettanto è odiato”[47]. L’atteggiamento risoluto e il decisionisrno del Pallavicino avevano dunque suscitato subito delle resistenze, specie da parte della Reale Udienza, che per tradizione era custode dei diritti del Regno. “Sono grandi le doglianze per li Decreti decisivi del Viceré”, osservava il Maino nel luglio 1721, “e per le delegazioni di queste ne commette molte al Conte di S.Giorgio, alcune al fiscal Peyre ed altre ai Giudici criminali, sebbene siano pendenti nel Tribunale”[48].
L’avocazione delle cause costituiva per il Maino una violazione della legislazione locale: “Li decreti che fa come più gli piace, impedendo il corso a quei del Tribunale, sono contro le Leggi del Regno, mentre secondo queste non può ingerirsi negli affari di giustizia”. Logico quindi che il viceré sembrasse usare “l’autorità assoluta”, favorito anche dal fatto di essere “adulato dalli Conte di S.Giorgio e fiscale Peyre; il primo per l’utile delle delegazioni”[49]. Con l’aiuto di costoro il barone organizzava la gestione degli affari giudiziari; il San Giorgio faceva infatti “sua corte al Viceré, vivendo di buon animo con lui”, così come il Peyre, il quale “per non tirarsi alcuna mala parola, approva tutto ciò che dice il Viceré”[50].
Una conseguenza di ciò era che “Li processi criminali sono quasi tutti difettosi, il che procede come ha detto il Giudice Melonda dal non essere visitati dal Fiscale Peyre, il quale trova più suo conto nel fare la Corte al Viceré et al Conte di S.Giorgio, anclandovi tutte le sere alla conversazione”[51]. Della consorteria non facevano però soltanto parte dei piemontesi, ma anche sardi come il dottor Giuseppe Antonio Lay, che in poco tempo aveva guada gnato “grande intrinsichezza” col conte di San Giorgio, tanto che “per tal motivo è preso da molti per Avvocato”. La preferenza accordata al Lay, soprannominato per tale motivo “Consultore del Reggente”, aveva suscitato molte critiche e lo stesso Lay era stato accusato di coltivare interessi privati, avendo “procurato di far nominare ad un Canonicato un suo fratello già beneficiato, e figlioio di un cocchiere senza dottrina”[52].
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