Il Viceré del Bastione – Potere viceregio e autonomia giudiziaria
Le lamentele a tale proposito non tardarono a giungere in Piemonte, così che nel novembre 1721 il governo ordinò al reggente di indagare[57]. Nel dicembre successivo venne inoltre creato a Torino il Consiglio di Sardegna, corte d’appello di ultima istanza, a cui sarebbero state inviate da ora in avanti le suppliche concernenti i ricorsi di giustizia, che prima erano state indirizzate al viceré[58]. Nell’informare il Pallavicino della costituzione dell’organismo, il Mellaréde si augurava che “fornirà per il futuro una regola più metodica e una spedizione più celere degli affari, in maniera che V. Eccellenza ed io saremo più sollevati”. Il primo segretario auspicava che il nuovo tribunale lo scaricasse “di tanti fastidi, allo stesso modo che la Reale Udienza deve fare nei vostri confronti per una quantità di affari”. Nella lettera emergevà tra le righe l’invito a non ingerirsi nelle cause giudiziarie: “Io mi prendo la libertà di dire a V. Eccellenza che incontrerà la soddisfazione del Re, se lascerà a questo tribunale tutta la cognizione che gli appartiene, non derogando alle prerogative che gli sono dovute e non prendendo con l’approvazione del solo Reggente le decisioni, che ella deve prendere con il concorso della maggior parte dei giudici”[59].
Appresa la notizia della costituzione del Supremo Consiglio, il Saint Remy scrisse alla segreteria degli Interni, affermando di non agire “per capriccio”, ma basandosi “sull’opinione delle persone più illuminate”. I governanti di Torino, del resto, non avrebbero dovuto ignorare “che i Viceré firmano tutti i mandati delle Sale e della Cancelleria, e che quando io vedo che le cose non sono secondo giustizia, non ritengo di doverle firmare, né per onore, né per coscienza. Egli comunque era pronto a rendere conto “al Re di tutto ciò che faccio qui, giacché è tutto registrato”[60].
Intanto però l’inchiesta a carico del viceré era iniziata e già nel Febbraio 1722 il conte di San Giorgio rispondeva al Mellaréde, comunicando di non avere mai “non solo tenuto notizia, ma nemmeno intese doglianze sopra la sospensione o rinnovazione d’alcuna cosa ordinata da questo magistrato, benché, a riserva delle sentenze, l’altre provvisioni vengano tutte firmate da questo Viceré sì del Civile, che del Criminale”[61]. Veniva dunque confermata una certa volontà accentratrice del Pallavicino, ma non un suo presunto abuso di potere. Costui però, secondo la testimonianza di un osservatore ben informato come il Maino, continuava a “fare tutto lui, mosso unicamente dal zelo che ha, perciò alcune volte vi seguono irregolarità malintese dai sardi”[62]. Il barone, comunque sia, aveva a sua volta scritto al ministro degli Interni, per respingere I’accusa di aver annullato due sentenze pronunciate dalla Reale Udienza. Quello che egli sottolineava non era tanto il fatto che si mettesse in dubbio la sua buona fede, quanto che la vicenda fosse diventata di pubblico dominio, cosa che avrebbe screditato non soltanto la sua reputazione, bensì quella del governo stesso[63].
In realtà, contro il Saint Remy si era costituito un ampio schieramento “trasversale”, che contava sia sardi che piemontesi e agiva a Cagliari come a Torino. Un fiero avversario continuava a rimanere l’intendente Capello, mentre crescente era l’ostilità dei giudici indigeni della Reale Udienza; in Piemonte invece le critiche al viceré venivano dai due reggenti di toga e di cappa resso il Supremo Consiglio di Sardegna, il giudice Giovanni Battista Galcerino e Giovanni Battista Zatrillas, marchese di Villaclara. Quest’ultimo aveva fatto circolare negli ambienti di corte una sorta di manifesto diffamatorio, in cui accusava il barone di averlo danneggiato, facendo sospendere illegalmente una sentenza a lui favorevole relativa a una lite ereditaria con la sorella. Contrari al Pallavicino erano anche i fratelli Giovanni Pietro e Giovanni Antonio Borro: il primo, proprietario di una tiporafia nel capolugo cagliaritano, aveva fatto ricorso contro la decisione viceregia di assegnare il privilegio unico di stampa al colle a Nicola Pisu e si era rivolto al Supremo Consiglio; il secondo, abate di San Giovanni in Sinis, aveva preso le difese del fratello, approfittando delle amicizie altolocate che contava nella capitale sabauda e che annoveravano, oltre ai reggenti sardi, lo stesso ministro Mellaréde[64]. Grazie a tali appoggi, sia il Villaclara, sia Pietro Borro avevano ottenuto la possibilità di presentare una supplica al re, in cui denunciavano i presunti torti subiti[65].
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