Il Viceré del Bastione – Potere viceregio e autonomia giudiziaria

 
 

Una volta che l’operato del Saint Remy venne messo in discussione, si verificò puntualmente ciò che il barone aveva temuto, ossia il suo prestigio si indebolì e gli attacchi nei suoi confronti aumentarono. Così nell’ottobre 1722 egli fu costretto a rivolgersi al Mellaréde per respingere le accuse della città di Cagliari, che aveva spedito una supplica al Supremo Consiglio, affermando che il viceré aveva leso i privilegi della comunità[71]. Vittorio Amedeo II aveva chiesto a proposito informazioni alla Reale Udienza, ed era proprio questo il punto contestato dal Pallavicino, il quale ricordava che quando “c’erano lamentale contro il Viceré”, il re di Spagna inviava nell’isola un suo ministro col compito di fare la “visita”, dal momento che “mai la Reale Udienza può prendere informazioni sul Viceré, poiché costui ne è il capo”[72].

La creazione del Supremo Consiglio di Sardegna aveva senza dubbio fornito ai sudditi sardi la possibilità di far valere le proprie ragioni, scavalcando il filtro viceregio. Questa opportunità era stata subito colta dai ceti dirigenti locali e dai loro rappresentanti, i due reggenti Villaclara e Galcerino. A tale proposito è sintomatico il cambiamento di opinione nei loro riguardi da parte del Saint Remy, che dall’iniziale favore passò a considerarli tra i suoi maggiori avversari, tanto che nell’autunno 1722 di loro diceva che non erano “per nulla istruiti su ciò che si pratica in questo Regno, avendo vissuto il primo (Villaclara) quasi sempre in campagna e nella sua casa, e il secondo (Galcerino) per lungo tempo a Sassari”[73].

Nonostante i ripetuti interventi del governo, che del resto non sempre erano coerenti e dettati da una linea politica chiara, la situazione in ambito giudiziario continuò ad essere piuttosto carente dal punto di vista dell’efficienza e della credibilità delle istituzioni. A dire il vero il segretario Labiche nel giugno 1721 tracciava un quadro positivo e riferiva al Mellaréde: “Posso dire veramente che le due sale sono molto occupate e che tutti questi signori lavorano…esse hanno affrontato più processi in sei mesi di quanti non abbiano fatto in tre anni”[74]. Ciò tuttavia non impedì che nel novembre 1721 un informatore della corte torinese sottolineasse che i procedimenti erano spesso irregolari, mancandovi l’assistenza dell’avvocato fiscale Peyre[75]. Altrettanto critico era il giudizio su alcuni magistrati: “Quella Sala civile è molto debole; il senatore Braida con stento fa li sommari delle cause, il giudice Frediani è vecchio, indisposto per la renella e ha sempre atteso al criminale; Paliaccio appena ha li studi legali. Il più dotto, di buona coscienza e disinteressato è il Meloni posto nel criminale”[76].

I rapporti tra il reggente e i giudici della Reale Udienza erano pessimi, minati da conflitti di cerimoniale e da reciproca diffidenza. “ll Conte di S.Giorgio”, riferiva un testimone, “ha detto nel tribunale essere il Regno pieno di abusi e di uomini maligni”; da parte loro alcuni magistrati si dolevano “che quando fa qualche sessione, dia loro sedia di paglia, mentre che egli ne ha una da bracci”[77]. Nota a tutti era la sua amicizia col Peyre, il quale per altro “non attende all’Ufficio suo, non visita mai alcun processo, né tampoco lo studia. Lui E: sempre del sentimento del Reggente”[78]. A oltre un anno di distanza dall’emanazione delle disposizioni riguardanti l’abbigliamento dei giudici dell’Udienza, nemmeno esteriormente si era raggiunta quell’uniformità tanto auspicata dal governo piemontese. Nel maggio 1722 infatti nel tribunale continuavano ad esserci “sempre tre sorti di abiti differenti: il Conte di San Giorgio e senatore Braida portano il giuppone, li altri la gorciglia; il fiscale Peyre porta vestito nero e mantello, il che rende una difformità nelle prowisioni pubbliche”[79].
 
 

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