Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà
Dal momento che la situazione era delicata, le istruzioni date dal re al Saint Remy erano improntate alla massima prudenza; al viceré veniva infatti ricordato che “La prima e principale regola in questa materia dovrà essere di non innovare, ma di lasciare le cose nello stato in cui le troverete”. Il barone poteva “nelle occorrenze” consultare il Reggente, ma aveva comunque la piena supervisione sugli affari ecclesiastici, i quali “devono principalmente spettare a voi”[94]. Forte di tale delega il Pallavicino, si accinse dunque ad affrontare con l’energia che lo caratterizzava i non facili rapporti con il clero sardo.
All’inizio il compito non dovette sembrargli proibitivo: al suo arrivo in Sardegna aveva parole d’elogio per l’arcivescovo di Cagliari, lo spagnolo Bernardo Carignena, “uomo dabbene, che dona tutto ai poveri e per il vescovo di Ales, Isidoro Masones Nin, “ugualmente buon religioso”[95]. Ben presto però le prime impressioni lasciarono il posto a valutazioni più caute, così nell’annunciare la morte dell’arcivescovo di Sassari, lo spagnolo Gaspar Fuster, il Saint Remy consigliava al re di nominare al suo posto un piemontese e di dare le altre sedi vacanti a dei “naturali di questo Regno, per fare in modo di creare un partito tra gli Ecclesiastici, giacché qui non sono affatto più malleabili che altrove”. Una riprova di ciò era stato l’attegiamento tenuto dai vescovi nei riguardi delle disposizioni contenute nell’indulto emanato da Vittorio Amedeo II nel settembre 1720, alle quali non avevano ottemperato[96].
Nell’ottobre successivo il viceré scriveva a Torino che non avrebbe preso iniziative nei confronti del clero e che anzi si era prodigato a far si che i tribunali sardi non emanassero alcun provvedimento relativo alla giurisdizione ecclesiastica senza il suo permesso, “per evitare ogni tipo di contestazioni, specie a riguardo dell’arcivescovo di Cagliari, con il quale sono in ottimi rapporti, così che abbiamo concluso per via amichevole molte questioni, sulle quali il suo vicario con troppa precipitazione aveva fatto dei decreti che avrebbero potuto suscitare notevoli contestazioni”. Del resto, le materie ecclesiastiche sarebbero state “faccenda del Reggente e dei Ministri che V.Maestà invia in questo Paese, ai quali io comunicherò il mio parere”[97].
In realtà, l’arrivo dei magistrati sabaudi complicò la situazione, poiché erano portatori di una cultura giuridica, che non era certo favorevole alle ragioni della Chiesa. Tra i più accesi sostenitori dell’autorità laica tigurava l’avvocato fiscale Peyre, il quale “negli affari ecclesiastici parla sempre della Chiesa gallicana e dei suoi usi e che non conviene temere le censure”. Le sue affermazioni avevano suscitato molte perplessità tra i colleghi sardi, “parendo loro eresie” e qualche religioso aveva sostenuto che i piemontesi sarebbero stati “fra sei mesi scomunicati, perché contro il costume se gli contraria troppo la Giurisdizione, avendo saputo che il fiscale Peyre dice pubblicamente essere questo costume ed uso un abuso, e che per metterli alla ragione (gli ecclesiastici) vi bisogna il bastone e non temere le scomuniche[98].
Questa tuttavia non era certo la strategia più adatta per gestire i rapporti con il clero sardo e un acuto osservatore come il giudice Maino nel giugno 1721 rilevava che sarebbe stato conveniente per “il servizio di V.Maestà, che si procuri di evitare ogni impegno con gli Ecclesiastici, perché sono molto venerati dal popolo, sono essi che regolano tutto e che hanno li denari”. Egli notava anche che gli spagnoli, “nel partire dissero esser li Piemontesi poco amici della Chiesa”, il che aveva procurato al nuovo regime la fama di nemico della Santa Sede”. Nell’autunno la situazione si cornplicò e lo stesso Maino notava che “Li Ecclesiastici procurano di intorbidare la Giurisdizione” e che “Se non si usa prudenza vi possono nascere sconcerti”[100]. Ulteriore indizio dell’aggravarsi dei rapporti tra Stato e Chiesa fu la mancata accoglienza da parte di Roma delle nomine proposte in quell’anno da Vittorio Amedeo II per le diocesi vacanti.
In una lunga lettera al re del novembre 1721 anche il Pallavicino riconosceva la difficoltà del momento e confessava che il governo di recente aveva perso due contenzioni, “in verità di notevole pregiudizio per i diritti di V.Maestà”. Egli ne attribuiva la causa al giudice del tribunale della Concordia, il canonico Giovanni Battista Chirronis: “questo dottore è un uomo saggio, ma è un prete sardo. E come abbiamo perso le due ultime contenzioni, cosi non c’è prospettiva che noi ne vinciamo mai una. Il servizio di V.Maestà richiede che per cancelliere vi sia uno dei suoi sudditi antichi”. Vi era poi un altro segnale sfavorevole, vale a dire il fatto che “i Vicari di Sassari, Oristano e Alghero ci pro curano mille fastidi”. ln previsione di uno scontro il viceré si rivolgeva quindi al sovrano, pregandolo “molto umilmente di comunicarmi i suoi ordini, se qualora si inviano contro questi vicari lettere monitorali si deve perseguirli e obbligarli ad eseguirle in conformità delle lettere Reali riguardanti gli Ecclesiastici, di cui invio copia alla Segreteria di Stato, aflinché io possa regolarmi secondo quel che V.Maestà si degnerà di ordinare in simili casi, che sono molto frequenti. Sembra che i preti li facciano nascere di proposito a pregiudizio della giurisdizione regia e contro il tenore delle lettere Reali, alla cui esecuzione dicono chiaramente di non essere tenuti. Nonostante io faccia in modo di evitare tutte le occasioni di contesa, vedo che ciò non è più possibile. É per questo che gli ordini di V.Maestà mi sono così necessari”[101].
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