Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà

 
 

In quegli stessi giorni scriveva a sua volta a Torino il segretario Labiche. Rivolgendosi al Mellaréde, egli descriveva il carattere dei principali prelati, specie di quelli che a suo parere erano i meno concilianti: il vescovo di Ales, che era “tra i più attenti alla questione della giurisdizione” e quello di Bosa, “rigido difensore dell’immunità”[102]. Non è un caso che in un clima del genere scoppiasse ‘l’affare Marras”, che per due anni rappresentò il principale motivo di conflitto tra il governo piemontese e la Chiesa sarda. Pietro Francesco Marras, vicario di Oristano, sede episcopale vacante dal 1716, aveva già attirato llattenzione delle autorità sabaude, in quanto “va sempre cercando di estendere la giurisdizione ecclesiastica e di sostenere gli abusi. É la diocesi dove ce ne sono di più”[103].

Accusato di malversazione nell’amrninistrazione dei beni diocesani, il Marras nel febbraio 1722 venne arrestato dal giudice della Reale Udienza Francesco Melonda, che il Saint Remy aveva inviato per destituire il vicario e sostituirlo con un altro economo[104]. L’intervento del potere laico diede inizio a un lungo braccio di ferro con le autorità religiose, le cui vicende servono a chiarire molte circostanze della politica sabauda di quel periodo, dal ruolo del viceré e dei ministri, all’atteggiamento della corte torinese. Al di là infatti del caso singolo, si trattò di un momento di forte scontro politico tra governo e clero, che rappresentò il prirno tentativo di mettere in discussione il regime piemontese[105]. Del resto, proprio alla fine del 1721 era partita la carnpagna diffarnatoria nei confronti del Pallavicino, che vedeva tra i protagonisti esponenti degli altri ceti sardi. È difficile non riconoscere nella convergenza di critiche mosse allora agli ufficiali sabaudi un ampio schieramento, che da più versanti: giuridico, religioso e più eminentemente politico, contestava metodi e finalità dei nuovi dominatori.

Intorno “all’affare Marras” si coagularono quindi due partiti, filo e antigovernativo (quest’ultimo capeggiato dal vescovo di Ales e dal vescovo ausiliario di Cagliari, lo spagnolo Sellent), che a volte esasperarono ad arte i toni della contesa per ottenere l’appoggio delle potenze politiche che vi erano coinvolte, trasformandola in una questione diplomatica tra monarchia sabaucla e Santa Sede[106]. È sintomatico che a fianco del viceré, il quale aveva approvato l’azione del Melonda, si schierasse subito il Labiche. Scrivendo alla segreteria degli Interni, egli in primo luogo definiva il Melonda il “migliore soggetto per quell”incarico” e riteneva che l’arresto del Marras era stato “un colpo di mazza per questo Vicario generale”, che avrebbe riportato a più miti consigli anche i suoi colleghi. Con gli ecclesiastici occorrevano le maniere forti, poiché “qui non temono la via giuridica; solo quella economica è capace di contenerli, se la si usa con discrezione e per giusti motivi”. Il caos istituzionale verificatosi in Sardegna negli ultimi venti anni aveva risvegliato “l’attenzione degli Ecclesiastici, sempre pronti a diminuire la giurisdizione reale e aumentare la loro. Essi hanno usato ogni mezzo per estendere la loro autorità, che è gia fin troppo ampia e allo stesso tempo hanno tentato di fare ancora di più da quando S.Maestà è signore di questo Regno”. ll viceré però vigilava ed aveva “grande attenzione, e si vede che la sua fermezza comincia e renderli più morbidi. D”altra parte egli ha conosciuto il genio di questa popolo e sa come bisogna trattarlo”[107].
 
 

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