Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà
Il governo torinese, a dire il vero, non era molto d’accordo sull’applicazione della linea dura; alla fine del febbraio 1722 Vittorio Amedeo II scriveva infatti al Saint Remy, disapprovando l’invio del Melonda e il conseguente arresto del Marras. Dal momento che si trattava di una faccenda importante, che toccava la giurisdizione ecclesiastica, si sarebbe dovuto agire con prudenza, “in vista anche che il rimedio non sia talora peggiore del male a cui si vuol riparare”. Il sovrano criticava dunque la fretta del viceré e il fatto che si fosse fidato del parere di pochi consiglieri, invece di consultare la Reale Udienza al completo. Il Pallavicino doveva far agire la magistratura, “secondo la massima più volte inculcatavi, che non conviene in simili materie che il Governo apparisca, ma bensì li Tribunali ordinari, li quali assicurando con la giustizia o con la pratica del Regno le loro risoluzioni, restano impegnati a sostenerle ed esimono il Governo dagli impegni”. Il principe sabaudo ammoniva inoltre che “in tali casi che possono avere qualche conseguenza, dovrete in avvenire essere più cauto e circospetto e non aderire così facilmente ai ministri del Paese, li quali per fini loro particolari possono proporvi ed insinuarvi deliberazioni contrarie alla tranquillità del Regno ed al nostro servizio”. Egli infine chiedeva di essere informato degli sviluppi della vicenda e ordinava che “qualora potesse nascere qualche impegno per il Governo” si desistesse dal procedere, “facendo solamente provvedere, senza però mai discostarsi dalla pratica del Regno, in quei punti riguardanti le nostre Regalie”[108].
Alcuni mesi dopo, meglio informato su quanto era accaduto, il re riconobbe in parte le ragioni che avevano spinto il Saint Remy ad agire, ma ribadì l’inopportunità dell’arresto operato dal Melonda. “Si è troppo ecceduto dal suddetto Giudice Melonda”, rilevava il monarca nel maggio 1722, “onde
non possiamo pure che disapprovare in questa parte il zelo del predetto, che avremmo desiderato che si fosse trattenuto in termini più moderati”[109]. Il realtà, nonostante la mediazione dell’arcivescovo di Cagliari, “l’affare Marras” acquistò sempre maggior risonanza, anche perché il vicario scomunicò il magistrato che lo aveva arrestato, aprendo così un caso che coinvolse la Curia
romana e che venne risolto definitivamente soltanto nel 1724[110].
La vicenda suscitò una vasta eco nell’opinione pubblica isolana, i cui umori venivano puntualmente descritti dal Maino, il quale nel marzo 1722 riferiva della “disapprovazione dei sardi” a proposito dell’arresto. È tuttavia interessante notare come la responsabilità dell’accaduto non venisse attribuita al governo sabaudo: “Qui dicono pubblicamente non essere stata risoluzione né del viceré, né del Consiglio, e che il male si fa sempre da un naturale e che un Piemontese non avrebbe fatto questo”[111]. In effetti, è probabile che il Pallavicino in occasione del conflitto col vicario di Oristano venisse spinto ad usare la maniera forte proprio da qualche locale, tuttavia non si deve dimenticare che egli era consigliato da magistrati come l”avvocato fiscale Peyre, noto per la sua intransigenza nei confronti del clero.
L’atteggiamento tenuto in questa occasione dalla Reale Udienza fu piuttosto ambiguo; i giudici sardi lasciarono infatti al viceré la responsabilità di aprire un procedimento contro il vicario, limitandosi a proporre di inviare un memoriale a Torino, per chiedere istruzioni in merito. Un testimone a proposito osservava che dopo aver ascoltato la relazione del fiscale Peyre, “li Sardi dissero sotto voce, che facciano a modo loro”[112]. Se da un lato dunque al governo venne a mancare l’appoggio convinto della magistratura locale. dall’altro si evidenziò l’incapacità di diversi suoi componenti di affrontare una realtà dimostratasi molto più complessa di quanto si fosse immaginato. Non solo uomini come il Saint Remy, militare di professione e quindi dotato di scarsa cultura giuridica, ma anche magistrati come il Peyre e lo stesso conte di San Giorgio, si rivelarono incapaci di gestire con competenza e soprattutto con diplomazia i rapporti con il clero isolano. Tutto ciò non poté non influire sulle scelta di Vittorio Amedeo II di sostituire il Pallavicino con il più navigato abate del Maro ma soprattutto di mandare nel 1724 come reggente un vero e proprio esperto di questioni giurisdizionali come Giuseppe Beltramo, a cui va il merito di avere compilato un’ampia raccolta commentata degli usi ecclesiastici sardi[113].
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