Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà

 
 

Comunque sia, “l’affare” superò ben presto la volontà dei singoli protagonisti e venne usato strumentalmente per attaccare il regime piemontese. Sempre il Maino informava infatti che a Cagliari un certo “Padre Capai, di genio spagnolo, ha intrecciato nelle sue prediche alcune satire contrarie al Governo”, osservando che “questi ecclesiastici sono sempre più contrari… il vescovo ausiliario fa il capo, unito al vescovo di Ales”. Entrambi poi manovravano il Marras, il quale sobillato dai due prelati si appellò a Roma”. Per ottenere la revoca della scomunica lanciata contro il proprio funzionario, il governo fu allora costretto a rivolgersi alla Santa Sede, con una considerevole perdita di prestigio.

Secondo il giudice Maino le responsabilità del Saint Remy a questo proposito erano notevoli. Nel febbraio 1723 così scriveva al re: “Già gli Ecclesiastici hanno ottenuto il loro gran fine di far venire l’assoluzione da Roma, cosa per l’addietro mai praticata, ora procederanno sempre per censure per
evitare il rimedio della contenzione. Sarebbe maggior servizio di V.Maestà che il Viceré prima di risolver negli affari, che non esigono una pronta provvidenza, li consultasse e poscia li partecipasse a V. Maestà, per attendere li suoi ordini, il che se si fosse praticato nella detta pendenza, non si sarebbe emanato un decreto così pregiudiziale”[115].

In effetti, il vantaggio guadagnato nei confronti delle autorità laiche, spinse il partito clericale ad intraprendere altre iniziative, come quella portata avanti dal vescovo di Ales, prima voce dello Stamento ecclesiastico, il quale si rivolse al viceré, dichiarando che avrebbe inviato alla corte di Torino un memoriale scritto insieme ai portavoce degli altri due Stamenti, per richiedere la convocazione del Parlamento. All’inizio di marzo 1723 il Pallavicino informò della cosa la segreteria degli Interni, osservando che aumentavano le provocazioni degli ecclesiastici, i quali “si sono spinti a un punto tale che non è più sopportabile”. Bisognava passare al contrattacco perché, come sottolineava il vecchio generale, “non sono la dolcezza e le buone maniere a mettere in riga la gente di questo Paese; non c’è che il rigore che li possa contenere”[116].

Vittorio Amedeo II non era però di questo avviso. Rispondendo al proprio ministro ribadiva la necessità di agire con prudenza e gli ordinava di “continuare ad evitare ogni incontro con codeste Curie Ecclesiastiche e di non passar a praticare in loro riguardo alcun mezzo economico e politico, prima di averci tenuti ragguagliati dei fatti che possono andar succedendo e di avere sovra di essi ricevute le nostre determinazioni”. Di conseguenza disapprovava l’arresto di un servitore del vescovo di Ales, detenuto perché si era dichiarato esente dalla giurisdizione laica, in quanto tale atto “poteva maggiormente inasprire il predetto Prelato et impegnarlo a cercare nuove occasioni da continuare ad inquietare il Governo”[117]. In realtà non era facile ubbidire alle direttive sovrane, poiché il prelato sembrava mirare soltanto a “pregiudicare in ogni maniera i diritti di S.Maestà e i privilegi del Regno”[118]. Anche il Labiche era di questo avviso e scrivendo al Mellaréde nel maggio 1723, dichiarava che le azioni del vescovo erano tutte rivolte a contrastare l’autorità sabauda[119].

Un segnale di distensione da parte di Torino fu la decisione di affidare alla Reale Udienza la compilazione delle teme dei candidati alle diocesi vacanti di Cagliari e Oristano, atto che testimoniava l’intenzione di rispettare le prerogative del tribunale e di consentire una qualche partecipazione del Regno alle scelte sovrane. Il viceré dal canto suo non interferì negli atti del tribunale, limitandosi a proporre al re dei sudditi piemontesi, opinione che egli confermava ancora nel giugno 1723, dichiarando che “la maggior quantità dei suoi antichi sudditi deve essere preferita alli Nazionali, senza però derogare a quei Vescovati che si danno ai Regnicoli, che sono quelli di Bosa, Castellaragonese e quello di Ales, perché quello di Alghero si è dato sovente agli Spagnoli”[120].

 
 

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