Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà
Le autorità sabaude erano in qualche modo preparate a ciò, tanto che il Pallavicino veniva preventivamente informato che i nobili, “che nella maggior parte sono poveri”, avrebbero cercato di lusingarlo, al fine di ottenere pensioni e benefici, soprattutto “moratorie ossia dilazioni per il pagamento dei debiti dei quali sono gravati”[130] La realtà, tuttavia, superò le previsioni e la segreteria viceregia si trovò ben presto sommersa da una valanga di suppliche e memoriali. Il Saint Remy nell’agosto 1720 cominciò ad assegnare le prime cariche, sia pure in via provvisoria. A goderne furono aristocratici di sentimenti imperiali come i due conti Piccolomini (al primo fu assegnato il governatorato del Goceano, mentre al secondo il capitanato delle Torri del Regno) e il marchese di Villaclara (genero del filoaustriaco Antonio Francesco Genoves, marchese della Guardia), che fu scelto per portare a Vittorio Amedeo II l’omaggio degli Stamenti[131]
Intanto all’interno del Braccio militare scoppiò un dissidio per ricoprire il ruolo di prima voce tra Francesco Amat, marchese di Villarios “del Capo di Sassari” e il marchese di Albis, della famiglia Manca Guiso. Era il segno premonitore che le contese politiche si sarebbero ridotte in futuro a questioni di onore e precedenza, via, via che il ruolo del Parlamento veniva di fatto annullato e si imponeva la pratica di rinnovare il donativo alla Corona tramite la convocazione delle sole prime tre voci degli Stamenti. Anche la tradizionale rivalità fra “Cagliaresi e Sassaresi”, che un informatore sabaudo giudicava “non inferiore a quella che regna tra Palerrnitani e Messinesi”, era destinata ad assumere una valenza ben diversa rispetto al passato[132]. L’aspra competizione politica tra il nord e il sud dell’isola, che aveva animato in precedenza la vita parlamentare e in cui si erano inseriti importanti antagonismi, ma anche una sostanziale e ininterrotta unità di corpo, avrebbe lasciato spazio a un’accentuata polarizzazione geografica della nobiltà. Questa favorì la presenza nel capo meridionale di un’aristocrazia più facoltosa e maggiormente in grado di aspirare alle cariche, grazie alla vicinanza fisica al viceré, mentre in quello settentrionale si sviluppò una feudalità provinciale meno ricca, ma perciò irrequieta e quasi anarchica, tenacemente orgogliosa del proprio lignaggio[133].
La riottosità dei sudditi del settentrione divenne un motivo ricorrente nella corrispondenza viceregia; nell’agosto 1721 il Pallavicino si augurava per esempio che al governo di Sassari venisse posta “una persona autorevole e di polso”, in modo di poter “contenere uomini così malvagi come sono quelli di quel Capo”[134]. Alcuni mesi dopo, tracciando un quadro complessivo della situazione del paese, il segretario Labiche affermava che mentre a Cagliari c’era un po’ di rispetto per la giustizia, nel Sassarese gli omicidi e i furti erano all’ordine del giorno: “Vi si rubano i buoi e i cavalli come in un altro posto si rubano i polli”[135].
Di fronte alle pressanti richieste che provenivano dalla nobiltà, il governo sabaudo si trovò a dover fare i conti con le proprie risorse, decisamente più scarse di quelle a disposizione della potente monarchia spagnola e con la necessità di disciplinare un ceto, la cui espansione era stata favorita dalla politica paternalistica seguita dai regimi succedutisi negli ultimi vent’anni, che avevano concesso con facilità il titolo di cavaliere. La base della piramide aristocratica si era allargata, inducendo i nobili titolati a chiedere fin dall’ottobre 1720 che non venissero armati cavalieri “senza le Patenti di V.Maestà” e che quelli già nominati presentassero i documenti comprovanti l’avvenuta nobilitazione[136].
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