Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà
Coerente con il criterio di non favorire una fazione rispetto all’altra, Vittorio Amedeo II ordinò al Pallavicino che “nella provvisione dei posti si abbia di mira di nominare soggetti dell’uno e dell’altro partito, non usando maggior parzialità per gli uni che per gli altri”. In effetti, i veri problemi consistevano nella scarsità dei mezzi a disposizione della Corona sabauda e nella povertà della Sardegna, i cui redditi non erano sufficienti neppure a supplire alle spese correnti, “per cui siamo costretti a rifondere del nostro Erario somme grossissime”. Egli dunque invitava il viceré a “ribattere con prudenza le domande di mercedi e pensioni, con insinuare opportunamente che si gradirebbe di averne per contentare tutti”[137].
Si trattava del resto di una strategia condivisa dal barone, il quale nel febbraio 1721, concordando sul fatto che “la stoffa è troppo corta per accontentare tutti i pretendenti”, proponeva di conferire ai sardi cariche onorifiche “anche se spesso inutili”, che però non costavano niente alle finanze reali e soddisfavano le aspettative dei sudditi[138]. In base a tale criterio il Saint Remy suggerì diverse nomine in favore di esponenti della nobiltà: nel settembre 1720, per esempio, segnalò come capitano delle guardie viceregie Don Francesco Cervellon e nel febbraio 1721 propose per la carica di generale della cavalleria miliziana il marchese di Thiesi, anch’egli un Cervellon. Nel giugno successivo nominò il marchese Manca di Mores commissario generale della cavalleria del Capo di Sassari, mentre a novembre fu creato governatore della Real Tanca il conte Bernardino Genoves[139]. Nonostante queste aperture, i ceti sardi non furono soddisfatti del comportamento della corte torinese, tanto da rimproverare il loro rappresentante marchese di Villaclara per non aver difeso gli interessi del Regno “presso V.Maestà, allorché ella ha nominato i Vescovi e dato pensioni a stranieri non originari di questo Paese”[140].
Benché il criterio con cui furono distribuiti gli onori sembrasse fondato sull’imparzialità, esso in realtà era dettato da precise esigenze politiche, che miravano ad ottenere il consenso della nobiltà più rappresentativa. Tale orientamento si manifestò chiaramente nel luglio 1721, in occasione della
proroga del donativo di 60.000 scudi, che era stato concesso nell’ultima riunione del Parlamento avvenuta sotto il dominio spagnolo. Il governo piemontese fece ricorso al “rito breve”, che consisteva nel convocare soltanto le prime voci degli Stamenti, ai quali fu chiesto il rinnovo del sussidio per tre anni, continuando nel “singular zelo y finesa” mostrati fino ad allora[141]. Le trattative furono così brevi che il 27 luglio il Saint Remy riferiva che “tutti i colloqui relativi a questo donativo si sono fatti con la più grande tranquillità possibile”, anche grazie alla disponibilità di personaggi come il marchese di Villarios, ora prima voce del Braccio militare, il marchese d’Albis, il marchese di Thiesi e Don Francesco Cervellon, questi ultimi due non a caso da poco beneficiari dalla corte sabauda[142].
Nonostante il successo il viceré dovette consentire la presentazione di una serie di capitoli da parte dei ceti, tra cui figurava la richiesta che almeno tre vescovati, i benefici ecclesiastici e gli uffici pubblici fossero assegnati “a favor de los hiyos naturales de este Reyno”[143]. Al di là dello zelo dimostrato nel rinnovo del donativo, la nobiltà continuava infatti a nutrire un sentimento di delusione verso il regime sabaudo, che il comportamento del Pallavicino non contribuì certo a diminuire. Avvisato, al pari degli altri funzionari piemontesi, del dovere di rispettare i costumi locali e soprattutto quelli dell’aristocrazia, il barone non si attenne agli ordini sovrani. “A tavola beve volentieri”, osservava un testimone nel giugno 1721, “e parla contro gli uni e gli altri, massime dei Sardi che sono poveri e maligni, senza riflettere che ve ne sia alcuno presente”[144].
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