Il Viceré del Bastione – Tra clero e nobiltà

 
 

Anche il salotto e il correggio, pratiche sociali all’interno delle quali i nobili trovavano una collocazione e la legittimazione del proprio status, subirono il rigido controllo del viceré, il quale “lasciatosi intendere che non voleva che gli Ufficiali andassero alle conversazioni delle Dame, queste se ne dolsero, con dire che il Viceré le faceva torto come se fossero donne da male, essendo assuefatte a divertimenti onesti”[145]. L’usanza di invitare a pranzo i gentiluomini locali non sempre favorì l’integrazione e la conoscenza reciproca, trasformandosi a volte in un’occasione di umiliazione. Il 19 dicembre 1722 un informatore riferiva a Torino che “li giorni passati il viceré è stato a tavola quattro ore con cinque cavalieri dei più giovani, quali si sono tutti ubriacati; le loro mogli e padri si dolevano che il viceré facesse far tali disordini”[146]. Questo comportamento causò una reazione, tanto che già alla fine del 1721 l’idillio tra il Saint Remy e la nobiltà appariva concluso, mentre nello stesso tempo aumentavano le lamentele nei suoi confronti, anche da parte di uomini come il marchese di Villaclara, ora reggente nel Supremo Consiglio di Sardegna, che lo stesso viceré aveva raccomandato”[147].

Avendo quasi il presentimento delle critiche che si stavano accumulando nei suoi riguardi, il barone in una lunga missiva spedita a Vittorio Amedeo II nel novembre 1721, rendeva conto del proprio atteggiamento verso l’aristocrazia. “Posso assicurare V.Maestà”, osservava “che sarei poco riconoscente se mi lamentassi della Nobiltà di questo paese; essi hanno per me tutto il riguardo e la sottomissione che devono al mio rango. Io li tratto allo stesso modo e con la stessa cortesia che siano di un partito o dell’altro; tutti mangiano la mia minestra, amici o nemici, e quello che crede di poter essere al primo posto nel mio cuore certamente si inganna, perché tutti sono uguali per me, dal momento che conosco bene il loro genio. Mi auguro, con l’aiuto di Dio, che V. Maestà non avrà alcun motivo di lagnarsi sul mio conto per il fatto che mi sia comportato male con qualcuno, poiché so molto bene che ci sono due linguaggi di cui ci si serve nella mia situazione: quello per i soldati deve essere più severo e rigoroso, quello per governare la nobiltà e il popolo più dolce e umano”[148].

L’accorata difesa non impedì che il Pallavicino si alienasse le simpatie di importanti esponenti della nobiltà, come il già citato Villaclara, il quale divenne uno dei suoi principali denigratori. La reazione del viceré fu energica; nell’aprile 1722 informava il re del fatto che il marchese aveva “preteso di fare un manifesto contro di me” e si sfogava, dicendo che “in questo Paese tutto il mondo pretende giustizia e nessuno la vuole seguire”. Si lamentava quindi dell’ingratitudine del Villaclara, che egli aveva giudicato un buon uomo, ma che alla fine si era rivelato essere sempre un sardo[149].

Al di là dei contrasti personali, si stava in effetti formando una forte opposizione nei riguardi del viceré, che non comprendeva soltanto i reggenti presenti a Torino. Nell’agosto 1722 il giudice Maino riferiva che i nobili si lamentavano di uno dei gentiluomini che servivano il Saint Remy, un tale Ignazio Rosso, “perché fa il protettore ora degli uni, ora degli altri, procurando dal Viceré decreti favorevoli”. Costui se ne serviva “per essere informato di ciò che passa in Città, essendo pratico per essere stato aiutante di questa Piazza nel governo dell’Imperatore”[150]. Intorno al Pallavicino si era dunque creato una sorta di filtro, che impediva di comunicare direttamente col rappresentante sabaudo, favorendo abusi e clientele. La vicenda era il segno di una realtà che avrebbe caratterizzato il governo viceregio anche nei decenni a venire, costituendo uno degli aspetti più sgraditi ai sudditi sardi. Stretti tra la necessità di avere dei consiglieri di cui fidarsi e la preoccupazione di non lasciarsi condizionare, i viceré finirono spesso per circondarsi di confidenti, che a volte impedirono loro di avere un giudizio obiettivo della situazione politica del Regno.
 
 

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