Il Viceré del Bastione

 

“Pace, quiete e tranquillità perfetta”.

 

Le lotte civili che avevano sconvolto la Sardegna nel primo ventennio del Settecento, avevano fomentato gli odi di parte, aumentando nel contempo i reati e i processi. Nel programma di normalizzazione che ispirò la politica sabauda, non potevano dunque mancare provvedimenti miranti a ripristinare l’ordine pubblico e la convivenza sociale. Vittorio Amedeo II emanò innanzitutto un indulto generale, i cui termini furono giudicati positivamente dai giudici locali, i quali affermarono che “avrebbe operato un buon effetto sul Regno”[158]. Il Contadore generale Fontana osservava a proposito che “da quanto si può comprendere, restano questi Regnicoli persuasi della buona e retta giustizia che V.Maestà le farà somministrare”, e auspicava “che vi sarà in avvenire un maggior contegno, anche nei delitti più comuni”[159].

In realtà i funzionari piemontesi non tardarono molto a ricredersi. Ai primi di settembre del 1720 il viceré avvertiva la segreteria degli Interni che nel Regno “i furti e gli omicidi sono ripresi dopo la pubblicazione dell’indulto. Il proreggente e i tribunali elaborano un editto per contrastarli”[160]. Il provvedimento venne emanato a metà del mese e nel preambolo il Saint Remy riconosceva che “Non ostante fossimo persuasi che il generale indulto accordato dalla Regia clemenza di S.Maestà ai nazionali ed abitanti di questo Regno da ogni e qualunque delitto commesso sino al giorno della pubblicazione del medesimo, inservirebbe di mezzo per schivarli nell’avvenire, ci ha fatto conoscere l’esperienza che invece dell’emenda sono stati più frequenti quelli che si sono commessi dopo la suddetta pubblicazione”[161].

Passata l’iniziale euforia, subentro nei governanti una più attenta riflessione sulla situazione sarda; il Pallavicino, rivolgendosi al sovrano sosteneva che “I vizi a cui questo popolo è più incline sono il furto, l’omicidio e la falsa testimonianza, e posso assicurare V. Maestà che c’è un brigantaggio che esiste da venti anni in questo Paese; credo che il male abbia avuto origine dai due partiti che ci sono, perché le persone si dedicano a tutti questi crimini sotto il pretesto d’appartenere all’uno o all’altro”[162]. Partendo da queste considerazioni, il barone arrivò a una conclusione rapida quanto semplice, che costituì la linea guida della sua azione: egli doveva essere duro e inflessibile, dal momento che era “bene per il servizio di V.Maestà e per la tranquillità del Regno, che mi si reputi un uomo molto severo; ci saranno meno spargimenti di sangue e ribalderie”[163].

I problemi erano gravi soprattutto in Gallura, dove si ebbero disordini fin dai primi mesi dell’insediamento del nuovo regime e a risolverli non contribuì certamente il fatto che si impiegasse circa un anno a riorganizzare la Reale Governazione di Sassari, il tribunale d’appello della regione[164]. Per fronteggiare l’emergenza, il Pallavicino domandò al re che gli venisse consentito di spostarsi nell’altro Capo dell’isola; la sua richiesta non solo si rifaceva alla tradizione spagnola della “visita”, ma all’idea di un viceré dotato di ampi poteri e autonomia di movimento, rispecchiando una concezione politica che però la corte torinese non intendeva più condividere. Alla fine del 1720 il Saint Remy affermava dunque la necessità di andare a Sassari, “per prendere conoscenza, visitandolo, di tutto il Paese, per stabilirvi la giustizia e conoscere i costumi di questo popolo e della nobiltà”. La presenza del viceré avrebbe contribuito “a calmare i disordini, che sono troppo frequenti nel suddetto Capo”, inoltre, egli proponeva che andasse con lui anche l’intendente, in modo di avere una conoscenza diretta dell’entità del demanio regio[165].

Il sovrano sabaudo non aveva però alcuna intenzione di avallare l’intraprendenza del proprio rappresentante, dal momento che la considerava non solo pericolosa, ma anche inutile. Nel novembre 1720 Vittorio Amedeo II aveva infatti scritto al viceré, invitandolo a non credere di poter “correggere gli abusi tutti d’un colpo…e benché sia massima di un Governo ben amministrato quella di riparare e correggere gli abusi, non è affatto prudente cominciare a farlo tutto d’un colpo, soprattutto in un Governo che è all’inizio”[166]. Così, per quanto concerneva il problema dell’ordine pubblico, alle misure drastiche proposte dal Saint Remy la corte torinese preferiva una condotta più “normale”, che evitasse provvedimenti d’urgenza e lasciasse agire i tribunali ordinari, senza l’intervento straordinario del viceré.

 

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