Il Viceré del Bastione – Pace, quiete e tranquillità perfetta

 

Il parere espresso nel febbraio 1722 dalla suprema corte torinese, rivelava da un lato la scarsa conoscenza che si aveva del fenomeno del banditismo e dall’altro la dipendenza da canoni interpretativi che si rifacevano al recente passato, caratterizzato dalla lotta tra le fazioni nobiliari. I membri dell’organismo, infatti notavano che “Quantunque nei Governi passati non siasi mai potuto por freno a simili eccessi, fomentati dal livore delle parzialità inveterate in quel capo tra gli magnati e loro aderenti, l’esperienza però ha fatto conoscere che meno frequenti ne succedevano con la pratica di far venire in Cagliari li Magnati o sia capi di dette parzialità… Infatti la maggiore e principale attenzione dei Viceré e dei Ministri era quella di avere nota di detti Capi, et allorché si commetteva qualche delitto si faceva venir in Cagliari il Capo sotto la cui aderenza era seguito il delitto e si riteneva in essa città sino a che avesse fatto cadere nelle mani della giustizia il delinquente, e così ben di rado succedeva che il delitto andasse impunito”. Tale espediente veniva riproposto anche per il presente, dal momento che “ha saputo per il passato dar alla giustizia la soddisfazione di contener in parte quei Popoli con l’esempio del castigo”; inoltre il Consiglio stimava “che potesse essere del servizio di V. Maestà di tenere alcune truppe nei luoghi più tumultuosi di quel Capo, che sono Ozier, Tempio e Castelaragonese et alcuni della Gallura e queste in tal conformità disposte, apportando da una parte il terrore alle male inclinazioni, sarebbero dall’altra in stato di assistersi le une colle altre, et accorrere ai casi che potessero succedere”. Venivano dunque indirettamente confermati i timori espressi dal Pallavicino e si rilevava che “La temerarietà dei casi dei quali avvisa il Viceré è parsa al Consiglio in tal grado, che sul riflesso delle conseguenze, crede indispensabile la trasferta nel Capo di Sassari del Barone di S. Remy, già prescritta dalle pragmatiche e sul luogo potrebbe esso Viceré informarsi dei capi delle suddette parzialità, non meno per assopirle che per prendere una nota dei medesimi, ad effetto di renderli responsabili di quanto potesse succedere”[175].

Il fatto che la situazione fosse ritenuta grave, è confermato dalla presentazione da parte del reggente Galcerino di una bozza di nuova prammatica “concernente la Giustizia del Regno”, che risultava pronta nell’aprile 1722. Prima però “di accingersi ad esaminarne gli articoli”, il Consiglio decise di “esplorare l’intenzione di V.Maestà, per sapere se sia di suo gradimento che venga esaminata”[176]. In realtà, Vittorio Amedeo II non voleva derogare nell’ambito giudiziario dal principio seguito in altri campi amministrativi, vale a dire di non innovare alcunché sul piano formale, astenendosi dall’introdurre nuove norme, che potessero far pensare a un cambiamento rispetto alla legislazione spagnola. Così l’approvazione del progetto del Galcerino venne sospesa, tanto che il magistrato si rivolse direttamente al sovrano, supplicandolo di far “sapere la sua Regia intenzione, per indi far esaminare il contenuto nel Consiglio, per essere poscia presentato alla Maestà Vostra”[177].

Intanto le cose andavano peggiorando e il commendatore di San Martino, governatore interinale di Sassari, nel marzo 1722 informava il viceré che “il numero dei crimini che si commettono è così grande, che io non so da dove cominciare per darne notizia a V.Eccellenza: sono stati derubati un parrucchiere sulla strada per Alghero e sulla strada di Nulvi dei mercanti di grano che andavano a Tempio; a quattro miglia da qui hanno sparato a un pastore”[178]. Nel maggio successivo il Pallavicino ordinò ai dragoni di stanza ad Oristano di spostarsi in Gallura “per dar il verde ai cavalli e per far seguire qualche esempio”. Il Consiglio di Sardegna approvò la decisione, come anche le dure condanne comminate in quei mesi dal governo. A Bono l’assassino di una guardia civica fu condannato “ad essere tirato a corda dai cavalli e fatto in quarti”[179].

Non era però con questi mezzi sommari che Vittorio Amedeo desiderava governare, bensì attraverso gli strumenti dell’amministrazione ordinaria, che doveva essere riorganizzata e migliorata. In questo senso un importante banco di prova per il nuovo regime fu la nomina dei regidores, ossia degli ufficiali incaricati di amministrare la giustizia nei feudi appartenenti ai grandi feudatari, che risiedevano fuori della Sardegna. Tali zone, anche molto estese, erano delle vere e proprie isole di immunità, dove si commettevano molti delitti destinati a rimanere impuniti, mentre i banditi vi trovavano spesso connivenze e coperture. Convinto di venire incontro ai desideri sovrani, il viceré si dedicò con impegno al reclutamento dei regidores.

 

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