Il Viceré del Bastione – Pace, quiete e tranquillità perfetta
Il Saint Remy, tuttavia, non si perse d’animo e tornando sulla questione nell’aprile 1723, informava la segreteria degli Interni che “Io non ho mai imposto dei Regidores, né dato delle patenti, bensì suggerito ai Podatari dei signori che sarebbe di servizio alla giustizia mettere qualche Regidores”. Egli del resto si era mosso di concerto col Reggente, con l’avvocato fiscale e con “qualche altro ministro, che hanno visto meglio di me la necessità d’avere dei Regidores. .. poiché il Podatario non può fare tutto da solo”. A riprova di ciò ricordava che “non appena è stato tolto il Regidor d’Orani, sono state rubate a Bitti in tre o quattro giorni più di trenta vacche e oltre trecento pecore e non è possibile che il Regidor del Marchese di Quirra Duca di Gandia possa nei sei mesi di tempo che i Regidores sono obbligati a risiedere nei loro feudi, di amministrare la giustizia nelle cento e più terre che possiede quel signore, poiché gli altri sei mesi egli resta a Cagliari o a Sassari a causa delle intemperie.”
Quello che però voleva sottolineare il Pallavicino, era il fatto che il viceré aveva un ampio potere di intervento e che “i Podatari non possono nominare dei Regidores, senza che siano approvati dal Viceré e quando quelli che propongono non sono validi, il Viceré ha il diritto di dire loro di nominarne altri; è una pratica stabilita da lungo tempo e sulla quale essi non fanno alcuna difficoltà[183]. In realtà nella faccenda dei regidores non era solo l’autorità viceregia a essere messa in discussione, ma anche quella della monarchia sabauda.
Al di là del fatto specifico, rimaneva infatti il problema dei rapporti tra la Corona e i magnati residenti a Vienna e in Spagna, che all’inizio del 1722 non avevano ancora giurato fedeltà a Vittorio Amedeo II. Il Saint Remy aveva manifestato l’intenzione di fissare un termine perentorio per la prestazione del giuramento e il Supremo Consiglio aveva stabilito sei mesi “per il primo termine et altri sei mesi…per la prorogazione di ogni mora e se fra detto tempo non avevano compiuto tal obbligo, s’intenderà ipso jure seguita la devoluzione dei loro feudi e si dovrà procedere immediatamente alle declaratorie per la riduzione dei medesimi”[184].
Il reclutamento dei regidores divenne quindi un aspetto importante del braccio di ferro politico intrapreso tra il governo e i grandi feudatari assenteisti, venendo usato come strumento di pressione per ottenere da loro il riconoscimento della sovranità sabauda. A questo riguardo appare emblematica la vicenda di Don Antonio Cavazza, che inviò una supplica a Torino, chiedendo di essere confermato nella carica di regidor del marchesato di Quirra, a cui era stato nominato dal duca di Gandia “abitante in Spagna”. Nella circostanza il Supremo Consiglio dichiarò che non era opportuno che l’amministrazione della giustizia restasse nelle mani di ufficiali scelti da feudatari estranei al Regno, “tanto per motivo della loro assenza, che per non avere li medesimi prestato il giuramento di fedeltà…onde pare ad esso Consiglio che potesse essere bensì del servizio di V.Maestà che venissero li suddetti Regidores da ella stabiliti, lasciando ai predetti titolati la libertà di stabilire chi meglio loro parra per la sola riscossione delle loro rendite”[185].
L’iniziativa del viceré rientrava dunque in un’ottica ormai condivisa all’interno del governo piemontese ed è probabile che tra il Pallavicino e i suoi interlocutori torinesi (il ministro Mellaréde e lo stesso Vittorio Amedeo II) si fosse organizzato a un certo punto un abile gioco delle parti, che vedeva il sovrano agire sul freno, mentre il suo zelante rappresentante nell’isola premeva sull’acceleratore, entrambi però accomunati dal desiderio di vincere l’ostilità dei magnati residenti all’estero, specie di quelli spagnoli. Comunque sia, la politica sabauda ottenne dei risultati e nel novembre 1722 giunse finalmente il giuramento di fedeltà dei marchesi di Quirra, Mandas, Laconi e Villasor, “li tre primi commoranti in Spagna e l’ultimo in Vienna”[186].
Il Saint Remy era particolarmente interessato alla vicenda dei regidores anche per motivi personali, dal momento che vi era coinvolto uno dei suoi più accaniti avversari, cioè Giovanni Pietro Borro. Il fratello di costui, l’abate Giovanni Antonio, contando sulle protezioni di cui godeva negli ambienti torinesi, lo aveva infatti proposto come regidor del marchesato di Orani, e oltre al parente aveva raccomandato altri personaggi, quali il citato Antonio Cavazza e un tale Devizia, tutti elementi che secondo il viceré non avevano niente “di ciò che occorre per contenere i sudditi e amministrare la giustizia con il rigore con cui è necessario esercitarla”[187]. Nonostante il parere sfavorevole del barone, il Borro ottenne la nomina, che però venne sospesa dalla Reale Udienza, in quanto giudicata incompatibile con l’ufficio di archivista reale, che egli già deteneva. Per il Pallavicino fu però una vittoria di breve durata, in quanto il Borro ricorse al Supremo Consiglio, che gli diede ragione e gli confermò la carica nel febbraio 1723[188].
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