Il Viceré del Bastione

 

Il secondo mandato (1726-1727).

 

Filippo Guglielmo Pallavicino partì dall’isola nell’agosto 1723, lasciandosi alle spalle molti problemi irrisolti e numerose inimicizie. Nonostante i contrasti avuti col sovrano, al suo arrivo a Torino ebbe notevoli riconoscimenti, come la prestigiosa carica di governatore della Cittadella, che veniva conferita soltanto a persone che godevano della particolare fiducia del principe. Ma l’attestato più importante fu il fatto che nemmeno tre anni dopo Vittorio Amedeo II lo rimandò nell’isola, dichiarando che “La risoluzione che abbiamo presa di rinviarvi in Sardegna per ripigliarvi il carico di nostro Viceré, Luogotenente e Capitano generale rende già abbastanza palese non meno la vantaggiosa opinione che abbiamo della vostra prudenza e virtù, che la soddisfazione provenutaci dal Governo già da voi avuto di quel Regno”[189].

La decisione del monarca sabaudo rispecchiava una precisa scelta politica e la volontà di imprimere un ritmo più deciso all’azione di governo, dopo l’impatto con la realtà sarda avvenuto col primo viceregno del Pallavicino e il successivo periodo di assestamento sotto Alessandro Doria del Maro, il quale aveva dovuto fare i conti con questioni difficili come l’ordine pubblico e il conflitto giurisdizionale col clero. L’abate era riuscito ad affrontare soprattutto quest’ultimo con abilità e prudenza, che unite ai negoziati condotti presso la Curia romana dal marchese d’Ormea, portarono nel 1726 alla riconciliazione col papa e alla concessione dell’indulto che riconosceva ai Savoia il diritto di patronato e di nomina dei titolari di tutti i benefici ecclesiastici. Raggiunto tale risultato, era opportuno che alla guida dell’isola ritornasse un uomo energico come il barone, in grado di eseguire con risolutezza le direttive che Vittorio Amedeo II intendeva ora applicare, forte della piena sovranità riconosciutagli anche dalla Santa Sede.

Certo, le istruzioni impartite per l’occasione al Saint Remy mostravano di aver fatto tesoro della precedente esperienza, e sottolineavano proprio quegli aspetti in cui il comportamento del viceré non era stato in sintonia con le indicazioni regie. Gli veniva quindi raccomandata la massima collaborazione con gli altri ministri del Regno, “massime col Reggente della Real Udienza, che fa anche l’ufficio di vostro Consultore e con l’intendente generale…avendo noi a lui appoggiato la direzione di tutto ciò che riguarda l’economico, tanto che dovrete coadiuvarlo nel suo ministero colla vostra autorità”. Particolare attenzione veniva posta alla tutela dell’autonomia della magistratura e si ordinava che “D’ogni provvisione che occorra di fare in materia di giustizia, ne lascerete l’incombenza alla Real Udienza… Dovrete vigilare acciocché ognuno soddisfaccia al suo dovete e si amministri dai Magistrati una pronta e retta giustizia… e perciò non farete sospendere l’esecuzione delle sentenze proferite nelle cause criminali, anche quando contrarie al vostro voto”, Quanto alle faccende che riguardavano i rapporti con la Chiesa locale, veniva ribadito l’invito a muoversi con cautela, tenendo informato l’Ormea “O quell’altro ministro che avessimo in Roma”[190].

Il Pallavicino in effetti, coerente con la condotta seguita in passato, non condivideva la linea “morbida” e già nell’aprile 1726 scriveva da Cagliari di essere convinto che era “indispensabile servirsi della contenzione” per risolvere le liti con gli ecclesiastici. Era inoltre preoccupato dell’alto numero di banditi operanti sul territorio: “se si ammazzano tra loro, questo non mi preoccupa molto, ma le strade principali non sono affatto sicure e l’insolenza è arrivata a un punto tale che non si può uscire dal proprio villaggio senza una scorta”[191]. L’arroganza del clero e la recrudescenza del banditismo finivano poi per essere fenomeni strettamente collegati, in quanto molti fuorilegge approfittavano del diritto d’asilo per rifugiarsi nelle chiese e sfuggire alle autorità.

 

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