Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)
“V.Eccellenza sarà ormai annoiata”, così esordiva il Saint Remy, scrivendo al Mellaréde nel maggio 1726, “di sentire sempre parlare nelle mie lettere di omicidi, assassini e briganti di strada. Le quadriglie aumentano tutti i giorni, a tal punto che nessuno osa mettersi per strada. I quattro capi principali sono Pepe Petra, Vincenzo Petra, Pepe Tiana e Pepe Diana, nomi ben noti al Signor Abate del Maro”[192]. Costoro e i loro complici si erano spesso serviti dell’immunità concessa ai luoghi sacri per rimanere impuniti, ma ora il viceré non voleva più tollerare una simile situazione e annunciava a Torino che era intenzionato a “farli arrestare dentro le chiese”. Era infatti persuaso che si trattava del mezzo più adatto “per fermare il brigantaggio in questo Paese, quando si renderanno conto che le chiese non salvano più questa sorta di criminali”[193].
Nonostante le sollecitazioni del suo rappresentante, Vittorio Amedeo II voleva invece mantenere una politica prudente e rispetto allo strumento della contenzione dichiarava di essere disposto ad usarlo, salvo però “aver attenzione a non muoverla se non quando sia creduta indispensabile per mantenere illesi i nostri diritti e che a voi non sia riuscito di aggiustare la controversia per la via amicabile, la quale sarà sempre più del nostro servizio di praticare prima di adoperarsi il suddetto rimedio”[194].
Il Pallavicino decise comunque di passare dalle parole ai fatti e fece arrestare diversi banditi rifugiatisi nelle chiese della diocesi cagliaritana; il 18 giugno riferiva orgoglioso che in uno dei villaggi intorno alla capitale era stato catturato anche “il famoso capo bandito chiamato Pepe Perra”[195]. L’atteggiamento risoluto del viceré si scontrò con quello del vescovo ausiliario Sellent, col quale nacquero subito dei contrasti in merito alla legittimità dell’atto compiuto dalla polizia sabauda, accusata di abuso di potere[196]. In questa circostanza la corte torinese appoggiò l’operato del viceré, invitandolo tuttavia ad intervenire solo dopo aver consultato il reggente e “il tribunale della Regia Udienza”, al quale bisognava lasciare “la cura di agire secondo gli usi e le Prammatiche del Regno”’[197].
Come era accaduto per il Marras, il caso dei banditi arrestati nelle chiese finì per diventare il pretesto dell’ennesimo braccio di ferro tra potere laico e religioso, coinvolgendo nuovamente lo stato sabaudo e il papato. Il rifiuto dei vicari vescovili di giungere a un accomodamento con il governo piemontese aggravò la situazione, obbligando il Pallavicino ad aprire formalmente la lite giurisdizionale. A metà giugno egli riferiva al re che stava cercando di evitare “con tutta attenzione ogni sorte di contesa, ma con molti di questi Vicari è impossibile di ridurli al ragionevole, e veramente hanno preso un’altura così forte, che non sanno parlare che con minaccie”. Nessuna controversia sarebbe stata aperta “prima che li Ministri della Reale Udienza mi abbiano dato il loro parere in scritto e firmato”, ma il barone rimaneva pessimista, perché “si comprende chiaramente che la mira di questi Vicari si è di non voler non solamente osservare la concordia, ma bensì distruggerla et annichilirla dai fondamenti”[198].
Le notizie provenienti dalla Sardegna ebbero vasta eco, a Roma e nell’agosto 1726 la vicenda era ormai diventata un affare diplomatico. Del resto, lo stesso viceré era in stretto contatto con il marchese d’Ormea in missione presso la corte papale, il quale sottolineava come il problema dei delinquenti catturati nelle chiese rappresentava un notevole ostacolo al buon esito delle trattative per lo sblocco delle nomine alle diocesi sarde[199]. Ad appena cinque mesi dal rientro nell’isola, il Saint Remy si trovava ancora una volta nell’occhio del ciclone, come era accaduto ai tempi del suo primo mandato.
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