Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)

 

Il Pallavicino non si mostrò altrettanto favorevole nei confronti del conte Piccolomini, che era stato nominato governatore della contea del Goceano da Vittorio Amedeo II e che nel giugno 1726 chiese la conferma della carica per altri tre anni. Il barone riteneva infatti il conte poco adatto ai compiti di governo, anche se “meritevole di qualche riguardo in considerazione della sua povertà e se gli si togliesse il governatorato non avrebbe di che mangiare”[261]. Le considerazioni del viceré erano anche in questo caso di natura politica: sarebbe stato meglio gratificare il nobile con una pensione, piuttosto che “lasciargli il Governo di quel Contado, il quale resta notabilmente pregiudicato nell’amministrazione della Giustizia”[262].

Da parte sua il re mantenne una politica prudente verso l’aristocrazia isolana, nel timore che qualsiasi innovazione ne potesse in qualche modo incrinare gli equilibri interni, favorendo le spinte antisabaude. Evitò per esempio di alimentare le contese per i titoli e la precedenza, che stavano diventando sempre più frequenti tra i nobili. Così nel caso della marchesa d’Albis, che lo supplicava di “concederle il titolo di Duca o Principe”, si rivolse al Pallavicino, chiedendogli se riteneva “che convenga di accordarle tale domanda, considerato che avrete se tale concessione potesse eccitare qualche gelosia o divisione tra la sua Casa e le altre più o ugualmente riguardevoli del Regno e massime se potesse metterla in pretensione, come quella che si troverebbe nel Regno decorata di maggior titolo, di essere la prima voce dello Stamento Militare, in pregiudizio dell’ordine con cui si trova oggi regolata”[263].

Se da un lato il sovrano si mostrò restio a concedere nuovi titoli, dall’altro fu più aperto per quanto riguarda l’attribuzione della patenti di nobile e cavaliere, che costituivano il primo grado della gerarchia aristocratica. Sotto tale aspetto gli ultimi anni del regno di Vittorio Amedeo II rappresentarono un’inversione di tendenza rispetto all’inizio del regime sabaudo. Anche per motivi finanziari, poiché il titolo veniva concesso tramite il pagamento di una somma, la monarchia divenne più disponibile a nobilitare i sardi. Dal momento che non esistevano norme precise a proposito, nel luglio 1727 il viceré, di fronte all’ennesirna richiesta da parte dei sudditi, scrisse alla segretaria degli Interni, chiedendo “di regolare i diritti che devono pagare per simili privilegi e di fare sapere una volta per tutte quello che si deve esigere, dal momento che i richiedenti sono disposti a pagare fino a 300 scudi”[264]. La sollecitazione viceregia indusse la corte torinese a regolamentare la materia e a stabilire con precisione le tariffe relative[265].

La maggior stabilità ottenuta grazie alla positiva conclusione del conflitto con Roma, consentì al governo piemontese di affrontare anche il problema della povertà della nobiltà e della conseguente richiesta di cariche e pensioni. In questo senso nuove opportunità vennero offerte dalla possibilità di disporre dei benefici delle diocesi, ma ciò comportò anche la nascita di nuove tensioni tra il governo e i ceti locali. Il Saint Remy volle infatti esercitare uno stretto controllo sulllapplicazione delle disposizioni sovrane, provocando l’ostilità della società isolana. Egli riteneva che anche i non sardi potessero godere dei beni ecclesiastici, mentre di tutt’altro avviso era il sovrano, il quale però riconosceva l’importante ruolo del viceré nella scelta di quelli “che destineremo per le pensioni, nel che avremo il dovuto riguardo alle persone che da voi ci sono state proposte”; nel marzo 1727 Vittorio Amedeo II ribadì comunque che non riteneva possibile concedere pensioni a forestieri, senza contravvenire a quanto stabilito nelle Corti del 1678 e 1699[266].
 

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