Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)

 

In effetti, l’arrivo del barone era avvenuto in un momento delicato, che per certi aspetti ricordava le circostanze in cui egli aveva assunto la carica nel 1720. Come allora infatti era in atto un cambiamento del personale della Reale Udienza di Cagliari e della Reale Governazione di Sassari, che portò al trasferimento di alcuni e alla promozione di altri; eventi di cui il Pallavicino non fu soltanto testimone, bensì parte attiva, in quanto le nuove nomine passarono anche al suo vaglio. La ricostruzione dei mutamenti avvenuti negli organici delle magistrature locali va oltre gli intenti di questo lavoro; essa tuttavia è possibile sulla scorta dei documenti d’archivio e costituisce un importante aspetto del processo di formazione di un ceto di funzionari sardi, attivamente impegnati nella politica portata avanti dal governo piemontese.

Per la prima volta fu promosso uno scambio tra l’amministrazione centrale e quella periferica, basti pensare all’esempio di Francesco Melonda. Promosso nell’aprile 1726 nella sala civile del tribunale cagliaritano al posto del giudice Frediani, nel maggio successivo il protagonista dell’”affare” Marras venne chiamato a Torino da Vittorio Amedeo II “per riempire la cattedra di jus civile in questa Università” e nell’estate si trasferì nel continente per essere pronto a ottobre “nel principio delllanno scolastico a intraprendere le sue lezioni”. Il Melonda in seguito fu nominato senatore e divenne presidente del Senato di Piemonte[200].

I due maggiori tribunali isolani in realtà erano da qualche tempo in agitazione. I membri sardi della Reale Udienza, come riferiva il Mellaréde nell’aprile 1726, avevano avanzato la richiesta di essere trattati con il titolo di “signoria”, che però era appannaggio soltanto “dei marchesi e dei conti del Regno” e avevano fatto ricorso al Supremo Consiglio. Tale pretesa, sosteneva il ministro, era pericolosa, perché aveva suscitato “una resistenza tra i titolati” e invitava il viceré ad intervenire “dando le disposizioni che Ella crederà opportune per tagliare sul nascere questa contestazione[201]. Il Pallavicino da parte sua non sembrava preoccuparsi più di tanto per la faccenda e la giudicava una questione di “onore” e di precedenza tra i giudici, che doveva comunque essere risolta, poiché “i Titolati mormorano e di conseguenza queste discussioni sono di pregiudizio al servizio del Re”[202].

Ben più gravi erano invece i problemi relativi alla Reale Governazione di Sassari, che rischiava infatti la paralisi a causa delle denunce sporte già durante il viceregno dell’abate del Maro contro il giudice criminale Lorenzo Pilo. Tra i suoi più accaniti accusatoti figurava Giovanni Valentino, conte di San Martino, nobile dotato di vaste aderenze nel nord dell’isola, tanto che la vicenda acquistò i connotati della faida tra opposti gruppi familiari e clientelari. Il governo aprì un’inchiesta, che venne affidata al sardo Francesco Cadello, ma già nel maggio 1726 Vittorio Amedeo II scriveva al Saint Remy che non era necessario raccogliere ulteriori informazioni, perché da quelle finora esaminate non risultava “la prova degli eccessi che gli sono imputati…ma solamente alcuni indizi, li quali, tutto che rendano molto sospetta la di lui innocenza, non sono però sufficienti…per farlo giuridicamente punire”. Tenuto comunque conto delle inimicizie che il magistrato nutriva nel Capo di Sassari, il re intendeva spostarlo a Cagliari, assegnandogli l’ufficio di consultore reale, “che ci è parso il solo ed il più adatto al di lui caso”, in quanto gli lasciava “la prerogativa et uso della toga”[203].

Se si pensa che anche l’altro giudice sassarese Diego Ferreli era stato da poco trasferito nella Reale Udienza, si può capire come la Reale Governazione nella primavera 1726 fosse praticamente smantellata e impossibilitata a svolgere le proprie mansioni. La cosa non poteva certo far piacere al Pallavicino, ora che con la cattura di alcuni importanti capi banditi come Pepe Petra gli sembrava di aver riportato la quiete nel Capo di Cagliari. “Non è la stessa cosa in quello di Sassari”, ammetteva il viceré nel giugno 1726, “dove i crimini aumentano di giorno in giorno a causa della quantità dei banditi e delle opposte fazioni che esistono in molti villaggi, dove ci si ammazza impunemente e si passeggia senza alcun rispetto della giustizia”. Per risolvere la situazione sarebbe stato necessario a suo parere che egli si spostasse “nel suddetto Capo, per essere in grado di provvedere a tali disordini, dal momento che È impossibile farlo da qui, data la distanza che c’è”[204].

 

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