Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)

 

In effetti a preoccupare il barone non erano solo l’aumento del numero dei banditi, bensì il comportamento dello stesso governatore di Sassari, il cavalier Carlino, che aveva assunto la carica nel 1723. Costui non era una persona qualunque, ma un fratellastro del re, nato dalla relazione extraconiugale del duca Carlo Emanuele II con una borghese di Torino. Il cavalier Carlino non era tuttavia l’unico bastardo di Casa Savoia presente in Sardegna in quegli anni: oltre a lui ci fu infatti il marchese di Susa Vittorio Francesco Amedeo di Savoia, frutto degli amori di Vittorio Amedeo II con la contessa di Verrua Giovanna Battista di Luynes[205]. La presenza di tali personaggi creò un notevole imbarazzo ai viceré e costituì un forte elemento di disturbo del loro operato, la cui portata non è stata ancora adeguatamente studiata.

Il Carlino in particolare venne subito ai ferri corti con il Saint Remy, tanto che questi nell’agosto 1726 sosteneva che per governare il Capo di Sassari era necessario “un uomo di testa”, che ovviamente non poteva essere l’attuale governatore, al quale rimproverava in primo luogo una condotta incauta nei confronti del clero, proprio nel momento più acuto della crisi giurisdizionale tra la corte torinese e la Santa Sede[206]. Il Pallavicino informò la Segreteria degli Interni sulle presunte irregolarità commesse dal collega e nello stesso tempo gli mandò degli ammonimenti scritti[207]. È però singolare il fatto che le colpe imputate al Carlino fossero in pratica le stesse di cui era stato accusato a suo tempo lo stesso viceré: autoritarismo e mancanza di rispetto verso le direttive centrali[208].

Al di là dei contrasti personali (da un lato un nobile di alto lignaggio, orgoglioso delle proprie prerogative, dall’altro un uomo probabilmente intenzionato a far valere in modo speciale la propria consanguineità col sovrano), emergeva ancora una volta un problema fondamentale del dominio sabaudo, vale a dire l’equilibrio tra i detentori dei vari poteri e in questo caso la preminenza del viceré sul governatore, che si intrecciava all’antica e mai sopita rivalità tra i capoluoghi e le magistrature dei due Capi dell’isola. Sassari del resto era una piazza “calda” non soltanto per l’ordine pubblico, ma anche per quello religioso, visto che nell’agosto 1726 il barone, pensando al caos in cui versava il capitolo della diocesi, aveva scritto al marchese d’Ormea e lo aveva pregato “di riferire a Sua Santità i disordini delle Chiese di questo Regno e la necessità di fornirle di Pastori”[209].

Mentre era intento a muovere critiche al cavalier Carlino, il Pallavicino si venne a trovare nelle medesime difficoltà. La sua autorità venne infatti messa in discussione dalla Reale Udienza, con la quale si scontrò in merito alla formazione delle terne degli ufficiali da nominare in seguito agli spostamenti avvenuti tra i magistrati. Già nel giugno 1726 egli informava Torino che esisteva a tale proposito “un piccolo inconveniente”, derivante dal fatto che “i ministri della sala non ritengono che io possa dare il mio parere sulle persone che reputo più capaci”; credeva però utile “al servizio del Re” che la terna si facesse “in presenza del Viceré, con libertà per i ministri di mettere nella loro terna quelli che vogliono”. Così facendo intendeva contrastare coloro che seguivano interessi personali, come l’intendente Capello, il quale voleva che “quelli che godono della sua protezione occupassero i primi posti in tutti gli uffici vacanti, senza pensare al merito degli altri, ed è sufficiente che gli facciano la corte o gli diano dell’illustrissimo per essere considerati dei grandi uomini”[210].

Dalla segretaria di Stato venne l’invito a rispettare in merito la normativa locale, ma il Saint Remy era convinto che la sua opinione si fondava sulla legge e scrivendo al Mellaréde, assicurava di avere “ben letto le Prarnrnatiche..ed è su queste che io mi baso” e lo invitava a esprimersi chiaramente sulla questione, “perché la cosa non e di poco conto e io ne parlo come di una faccenda che credo di servizio del Re e della giustizia”. Come ai tempi del primo mandato, il Pallavicino si mostrava strenuo difensore della funzione viceregia, “giacché occorre che il Viceré nomini quelli che ritiene i più capaci, in quanto deve essere più imparziale di tutti quelli che danno i loro pareri e se è un uomo onesto non deve parlate che facendo unicamente riferimento al merito”[211].

 

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