Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)

 

Le liti fra le istituzioni governative non erano certo il mezzo migliore per risolvere le emergenze dell’isola, prima fra tutte quella della criminalità. Un focolaio di tensioni sociali si era costituito da tempo a Ozieri, dove la popolazione era divisa in due partiti, l’uno “della Vignazza” e l’altro “della Piana”, che rispecchiavano la contrapposizione tra filoaustriaci e filospagnoli. Qui la situazione era grave, ma non necessitava ancora l’invio delle truppe. Secondo il barone, che scriveva nell’agosto 1726, “li movimenti di quel Popolo” dovevano considerarsi “per ora come reliquie delle antiche parzialità, che non si sono potute sradicare tra questi due Partiti, per il che ad ogni minimo rumore si risvegliano…Ove però la loro temerarietà passasse più oltre, non mancherò di praticare tutti li mezzi più efficaci per contenerli”. Ciò che lo preoccupava era che “non è sola la Villa di Ozier nel Capo di Sassari che necessiti di forti provvidenze per reprimere la temerarietà dei malviventi, mentre ve n’è una buona parte in cui si nutriscono pericolose parzialità, dalle quali derivano spesso uccisioni, oltre li furti e grassazioni che frequentemente succedono in tutto quel Capo, ove certamente l’amministrazione della Giustizia è nel peggiore stato che si possa considerare”. Confessava infine di avere grande timore “che le nuove discordie suscitatesi tra gli Ecclesiastici della cattedrale di Sassari, con grave scandalo di tutto quel Popolo, non siano per cagionare maggiori disordini et originare nuove parzialità tra i parenti et aderenti dell’una e dell’altra parte”.[212]. E le paure del viceré non erano ingiustificate, visto che aveva poi ordinato al regidor di Ozieri di comunicare “a quella gente che non mi diano la pena di far loro visita, e che ciò avverrà con mano pesante se non si ravvedono”[213].

Il vuoto di potere che si era creato nelle diocesi costituiva in effetti un elemento di destabilizzazione sociale e il suo protrarsi fini per preoccupare la stessa Curia papale. A metà settembre 1726 il Pallavicino comunicava al Mellaréde che la situazione sarda aveva suscitato “un grande scalpore a
Roma”, tanto che il pontefice pareva finalmente deciso “a concludere gli affari di Sardegna”. Il viceré non nascondeva la sua soddisfazione, “perché posso assicurare V. Eccellenza che non si sa più come fare con questi Ecclesiastici”[214]. La disponibilità mostrata dalla Santa Sede indusse il governo piemontese ad adottare un atteggiamento più risoluto nei confronti del clero isolano, tanto che nel novembre 1726 il Saint Remy sottolineava che “da quando si È deciso di resistere con fermezza alle azioni di questi Ecclesiastici essi sono diventati più malleabili; altrimenti in questo Regno la Giurisdizione reale sarebbe stata interamente annullata”[215].

Gli sforzi della diplomazia sabauda ebbero successo alla fine di novembre, allorché venne raggiunto l’accordo che attribuiva a Vittorio Amedeo II il diritto “per la nomina agli Arcivescovati, Vescovati et Abbazie vacanti”[216]. Nel complimentarsi col Mellaréde per il felice esito delle trattative, il Pallavicino affermava che era “un gran bene per il Paese che abbia dei vescovi e una grande consolazione per colui che diventerà Viceré, perché avrà a che fare con persone ragionevoli, mentre io ho avuto a che fare con gente petulante e inquieta come sono tutti questi Vicari attualmente in carica”[217]. Anche se l’insediamento dei prelati avvenne soltanto diversi mesi dopo, la soluzione della controversia giurisdizionale con Roma ebbe conseguenze positive sulla realtà sarda , con ricadute sull’ordine pubblico, come si augurava lo stesso Vittorio Amedeo a proposito di Sassari, dove i dissidi tra le fazioni “erano in gran parte cagionate dalle divisioni che corrono tra quegli Ecclesiastici”. Il monarca sperava infatti che il nuovo presule sarebbe stato in grado di “maneggiare con prudenza li loro spiriti e contenerli in modo che non turbino maggiormente la quiete di quel Capo”[218].

 

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