Il Viceré del Bastione

 

Bilancio di un viceregno.

 

Giuseppe Manno nella sua ancor oggi fondamentale Storia di Sardegna, diede un giudizio sostanzialmente positivo del Saint Remy e della sua opera, affermando che il barone “benché di natura risentita, era dotato di molto senno”[279]. Chiamato a gestire una situazione difficile, quando il regime piemontese era proprio agli esordi e aveva bisogno di consolidarsi, il nobile subalpino affrontò i problemi con decisione, anche se più con l’irruenza del soldato che con la prudenza del politico[280]. Egli del resto era consapevole della propria inesperienza a livello amministrativo e fin dal marzo 1721, rivolgendosi al ministro degli lnterni Mellaréde, osservava che “Occorre che S.Maestà abbia la bontà di perdonarmi se non distinguo molto bene ciò che riguarda la politica e la giustizia dalle faccende militari ed economiche; il mestiere che faccio adesso è del tutto diverso da quello che ho esercitato da 45 anni in qua, e prego V.Eccellenza di volermi correggere se sbaglierò”[281].

Lo scarso senso politico non impedì comunque al Pallavicino di portare avanti con determinazione e a volte con successo le proprie iniziative, tanto che si può in sostanza concordare con il parere di chi lo ha definito un viceré “attivo e operoso”[282]. Nel valutare la sua azione non si deve tuttavia dimenticare che fu condizionata dal drastico ridimensionamento dell’autorità viceregia, causata dalle limitazioni imposte dal nuovo modello burocratico sabaudo e soprattutto dalla volontà accentratrice di un monarca particolarmente geloso delle proprie prerogative come Vittorio Amedeo II.

Abituato a parlare e ad agire in modo diretto, come si addice a un militare, il Saint Remy non seppe muoversi con altrettanta diplomazia, attirandosi in breve tempo le critiche dei Sardi. In un primo momento, a dire il vero, il suo rapporto con gli isolani era stato costruttivo ed egli contribuì non poco alla promozione di diversi esponenti dei ceti dirigenti locali: da nobili come il marchese di Villaclara o magistrati come Giovanni Battista Galcerino e Francesco Melonda. I primi due divennero tuttavia ben presto suoi avversari e l’atteggiamento del barone cambiò radicalmente di segno.

Egli probabilmente sentì tradita la fiducia concessa e maturò quel giudizio sulla scarsa lealtà dei Sardi, che non avrebbe più cambiato. Nel maggio 1722, allorché si intensificarono gli attacchi nei suoi confronti, il viceré così scriveva al sovrano: “Conosco bene a fondo questa nazione, che non dice mai il vero, come ho sperimentato nell’infinità di lettere e suppliche che io ricevo tutti i giorni, avendo come massima principale di non credere mai a quello che mi dicono e finora non mi sono mai sbagliato”. Con gente simile si dovevano usare le maniere dure: “bisogna tenerli in miseria e lasciarli piangere fino a che siano allo stremo e ridotti alla fame, prima che V. Maestà doni loro un pezzo di pane”[283]. Un anno dopo ribadiva tale pensiero al Mellaréde , affermando che “come regola certa occorre non fidarsi dei Sardi, i quali promettono meraviglie e non mantengono mai la parola”[284]. Dati questi presupposti, non è forse un caso che la memoria del Saint Remy in Sardegna sia rimasta legata non tanto a qualche atto legislativo di particolare lungimiranza, quanto all’opera di fortificazione della città di Cagliari e della sua cinta muraria, che venne consolidata con nuovi bastioni, uno dei quali porta ancor oggi il suo nome[285].

Tornato a Torino alla fine del 1727, l’ex viceré portò con sé l’opinione poco lusinghiera sui Sardi; quando infatti nell’ottobre 1728 il barone di Montesquieu, di passaggio nella capitale sabauda, gli chiese notizie dell’isola, il Pallavicino rispose che se “il Re avesse voluto donargli la Sardegna non
l’avrebbe mai accettata, poiché vi era stato quasi sempre ammalato”[286]. Questo fatto e qualche altra annotazione folkloristica, erano gli unici ricordi che egli aveva conservato di quell’esperienza. Si consumava così, non solo a livello umano, ma anche politico e culturale, una delle tante incomprensioni che avrebbero caratterizzato i rapporti tra la Sardegna e il governo piemontese nel corso del XVIII secolo.
 

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