Atti del convegno Le Genti di Monte Claro • Dal Neolitico al Ventunesimo secolo
Anna Castellino
Monte Claro dopo Villa Clara
Tra il 1900 e il 1907 un evento stravolse completamente il Monte Claro, dandogli l’aspetto che è ancora sotto i nostri occhi: gran parte della sua area venne occupata da Villa Clara, il primo manicomio della Sardegna, che – almeno fino al 1904, quando entrò in funzione il Rizzeddu di Sassari- ospitò tutti pazienti psichiatrici dell’Isola[1].
Possiamo dunque dire che i malati di mente, o pazzerelli, o mentecatti (come all’epoca venivano chiamati), assieme ai loro assistenti medici e paramedici, furono le nuove e anche le ultime “genti” di Monte Claro.
Le popolazioni che le precedettero nella frequentazione del colle ci parlano ancora, ma solo attraverso l’interpretazione che gli studiosi danno dei loro reperti, delle loro opere; quelle “genti”, gli abitanti di Villa Clara, hanno ha invece una voce propria, conservata all’interno dei 16.000 fascicoli personali che costituiscono l’archivio storico dell’antico nosocomio.
Passando dunque ad esse la parola, come si conviene sentiamo innanzi tutto la voce del professor Sanna Salaris, il direttore che fondò la struttura e che con la destrezza di un prosatore seppe fermare sulla carta i momenti salienti della vita dei suoi pazienti prima e durante il ricovero.
In questi termini, nel 1905, il professore descriveva, ad esempio, l’accettazione di Antonio M. di Escolca:
Si presenta alla ricezione accompagnato dai carabinieri, con passo debole, fisionomia sofferente, contegno e mimica corretti. Prende di buon grado il bagno di pulizia di cui ha estremo bisogno, essendo letteralmente ricoperto dalla testa ai piedi di un numero straordinario di pidocchi. Interrogato, con voce tremante dice di essere ammogliato e di provenire dal carcere dove era detenuto da 5 giorni per aver rubato un pezzo di legno. Non ha mai commesso alcuna violenza ne’ alcuna pazzia ma non sa dove ora sia ne’ perché qui lo abbiano condotto. Domanda per grazia un po’ di cibo, giacché ha molta fame; ed infatti mangia con voracità un gran piatto di minestra.
Ancora nel 1902, su Giovanna A. di Pattada, che morì in manicomio due anni dopo, il professore ha lasciato detto:
Si ordina un bagno igienico a 33 gradi perché sudicia: i folti capelli brulicano di semoventi. Interrogata, dopo tanto insistere risponde con un filo di voce che, più che di suono articolato, sa di soffio, ma sempre coerentemente. Collo sguardo senza espressione, trovasi come sotto l’impressione di uno stupido incanto […] se ne sta in un angolo del refettorio o del piazzale donde non si muove se non la si invita ad alzarsi.
Alle 8 del mattino di un giorno del 1924, Sanna Salaris annotò nella cartella clinica di Teresa P., da Siliqua:
Mendicante, analfabeta, d’anni 40; peso Kg 39. Diagnosi: malinconia ansiosa; prognosi: riservata.
La guardia comunale che la scorta dice che il padre della ricoverata fu piuttosto di carattere violento ed eccitabilissimo. […] Da giovane eta orfana, si diè al meretricio e vagò di paese in paese. Lo scortante assicura che prima di tale epoca Teresa non era una ragazza di cattivo carattere, né incline a eccessi di qualsiasi genere. Da circa due settimane ritornò in Siliqua ed ivi mostravasi nuda per le strade, gemente per dolori diffusi al corpo, domandando che la uccidessero.
Tentò di buttarsi nel fiume, in parecchi pozzi.
Mentre era al servizio in Siliqua, è stata ingannata dal padrone, il quale la rese incinta, servì poi come balia e poscia si dette al meretricio, peregrinando per vari paesi. In varie volte ammalata di malattie veneree ammette di essere stata ultimamente a Siliqua, dove si mostrò nuda, colpì varii ragazzi, commise varie stranezze […]. A fare ciò però essa fu spinta dal demonio, il quale si è impossessato di lei; essa è condannata da Dio, lo sente, e ciò per la mala vita condotta, per tutti i peccati commessi. Già l’anno scorso andò a confessarsi, ma il prete non volle darle l’assoluzione; condannata quindi da Dio, mal vista da tutti, essa domanda la morte, la invoca e così avrà termine questa brutta vita. È stata in carcere parecchie volte per furto, ha traviato molti giovani, ha menato una vita molto colpevole; ora perciò, per castigo, brucia continuamente e non ha pace né di giorno, né di notte. Un giorno o l ‘altro però la finirà, sbattendosi il capo contro i ferri del letto.
Teresa morì in manicomio dopo 21 anni di ricovero per broncopolmonite.
Attraverso la voce del professore parlano anche i tanti bambini che crebbero e morirono in manicomio, spesso per semplici ritardi mentali o per epilessia, come Maria Giuseppa M., da Cabras, anni 8 nel 1906; diagnosi: idiotismo epilettico; prognosi: infausta.
Se ne sta a letto, giocando e facendo dei capitomboli; interrogata non risponde ad alcuna domanda, ma sorride in modo sciocco. Fino ad ora è pulita.
È sempre tranquilla, indifferente, non pronuncia alcuna parola se non pane; quando le si mostra qualche oggetto allunga le mani per carpirlo, anche se si tratta di un fiammifero acceso. […]
È continuamente irrequieta, salta sul letto, si arrampica su quello delle altre ammalate, corre dietro alle infermiere da un camerone all ‘altro. […]
Non ha alcuna manifestazione di vita psichica ed il suo linguaggio è ridotto alla pronunzia di due o tre parole. […]
Stato psichico invariato, notevole deficienza dei poteri intellettuali, predominio degli istinti. È indifferente davanti a quello che vede intorno a lei, non pronuncia che qualche parola come pane e mamma e conduce una vita esclusivamente vegetativa.
Qualche volta piange senza alcuna causa apprezzabile. Oggi, due accessi convulsivi l’hanno lasciata inerte, accasciata; di sera è di nuovo smaniosa di muoversi, di girellare per i cameroni come i dì scorsi.
Maria Giuseppa morì in manicomio a vent’anni, nel 1918, di pneumotorace.
Fin qui alcuni casi dei tanti descritti dal Sanna Salaris e dai medici che lo affiancarono e poi gli successero nella cura dei pazienti psichiatrici. Ma, come si è anticipato, in archivio sono presenti anche le voci degli stessi pazienti, registrate su lettere scritte di loro pugno e mai spedite dalla direzione, che però le conservava nei rispettivi fascicoli personali.
Uno per tutti, ascoltiamo dunque Battista P. F. di Sedilo (fig.1) che, con l’umorismo di cui l’ignoranza riesce ad ammantare persino la prosa riferita alle situazioni più tragiche, torna utile a smorzare di qualche tono il dramma evocato dalle testimonianze esaminate sinora.
Siamo nel 1912 e Battista – recluso da ormai 24 anni tra carcere e manicomio – scrive fiducioso al Signor Capo della Infermeria:
Il sottoscritto Umilmente è spone ha lei signor Capo, trovandomi in questo Ospidale più di dieci anni, Senza ne suna inputazione è così prego ha lei di mi mettere in libertà quanto prima possibile siada. Non Avendo più ne parenti ne Amici. Perché io mi trovavo in duna Casa di pena. All ‘quale ero Condanato ha quindici anni di recusione Inputo della Grasasacione del Reverendo […] di Sedilo dell 1888 e così lo prego di mi mettere in libertà Sendostatto Giudicatto alla Corte da Sissi di Oristano. Cherdo che mi merite la libertà perche non mi sono zetatto a pazio per non pagare grasacione dell’Prette che ora siamo nel 1912 che sarà di tempo d’essere Libero. Basta, se no vuole credere ame puo domandare Lasentenza dal Tribunale osiada dalla Corte dasisi di Oristano…
A questo punto non si possono non ascoltare anche i parenti dei ricoverati, che frequentavano Monte Claro per andare a trovarli affrontando viaggi estenuanti da tutte le parti dell’Isola. Chi proprio non poteva raggiungerli si teneva in contatto con loro tramite il primario, cui sono indirizzate migliaia di cartoline postali come questa di Daniela (fig.2), madre del paziente Antonio D. di Qrroli, che nel 1924 si rivolge al Sanna Salaris in questi termini accorati:
Egregio Sig. Direttore, pregola di chiedere al mio figlio Antonio si ha volontà di ritornare a casa sua. Anzi per prova quando V.S. mi risponde mi faccia la carità di farle scrivere qualche parola per me perché già sa scrivere e cosi vedendo la sua scrittura mi darà un po’ di lena all’afflizione che tanto mi distrugge. Mi scriva Lei in quale stato si trova e se posso avere speranza di rimandarmelo sano. Nel ringraziarnela della carità e mi perdoni se sono importuna perché il dolore di una madre non trova limiti….
L’infinito numero di testimonianze dirette presenti nei fascicoli d’archivio restituisce dunque identità e voce a coloro che hanno consumato l’esistenza o parte di essa tra le mura di Villa Clara; come si è visto, quelle pagine raccontano di dolore, di strazi indicibili che saranno di monito alle generazioni che non conosceranno l’aberrazione dell’istituzione totale, della reclusione, dell’emarginazione dal consesso sociale considerate come unica terapia alla malattia mentale.
Tuttavia, per quanto profonde, tali sofferenze non sono paragonabili a quelle patite da coloro che, prima della costruzione di Villa Clara, per secoli ebbero la sventura di essere “curati” nei sotterranei dell’Ospedale S. Antonio Abate (Fig. 3 – 4), il più antico nosocomio cagliaritano, funzionante sin dal XIII secolo a spese del municipio.
… Cameroni sotterranei, quasi tombe, pieni di umidità… il locale destinato al ricovero di questi infelici, cui natura prioò del ben dell ‘intelletto, è sudicio, mal sano e insufficiente ai bisogni, ma altresì che sia l’attendenza, sia il metodo di trattamento che seco loro si consuma, se non ha del barbaro, è però totalmente contrario al fine cui deve essere diretto, che i pazzi meglio che rinsavire vieppiù immattiscono.
Così venivano descritti nel 1852 i locali del S. Antonio, in un verbale di seduta del consiglio provinciale di Cagliari[2], durante la quale i consiglieri decidevano dunque che era indispensabile riservare ai “pazzerelli” un intero reparto del costruendo Ospedale Civile, inaugurato poi nel 1859 sotto l’intitolazione a S. Giovanni di Dio.
La nuova collocazione fu universalmente giudicata ottimale, ma non resto tale a lungo, in quanto appena tre decenni dopo, ancora in seno al consiglio provinciale, si lamentava il suo eccessivo sovraffollamento. Il dibattito sul problema si protrasse con toni accesi finché, nel 1891, non si decise di risolverlo prendendo in affitto da privati alcuni caseggiati nella località Is Stelladas e una vicina tenuta con annesso un vasto edificio, chiamato Villa Clara dal nome del colle su cui era situato. Qui progressivamente si diede sistemazione ai pazienti classificati tranquilli, assistiti dal solo Direttore Sanna Salaris e da poche suore, costrette a fare la spola tra questi locali fuori porta e il San Giovanni[3].
Solo nel 1899 la Provincia decise la costruzione di un manicomio che rispondesse ai dettami della scienza moderna, un vero ospedale per la mente e per il corpo, non un reclusorio in cui si custodiscono i matti al solo scopo di impedire che possano nuocere[4]. Si stanziò dunque la somma necessaria ad iniziare la costruzione della nuova struttura e ad acquistare la Villa Clara: proprio qui, infatti, nel sito di monte Claro dove già da un decennio si trovavano distaccati i pazienti tranquilli, la Provincia aveva stabilito di costruire il nuovo Ospedale Psichiatrico, su suggerimento dello stesso professor Sanna Salaris[5].
Sull’edificazione del complesso sanitario possiamo dire di conoscere ogni aspetto, grazie alle pratiche dell’Archivio storico provinciale e a una di esse in particolare: la relazione del progettista, che ancora si conserva con i bellissimi disegni acquerellati che le furono allegati[6].
L’incarico di ideare il nuovo manicomio era stato affidato al Cav. Ufficiale Stanislao Palomba, Ingegnere dell’Ufficio Tecnico Provinciale (Fig. 5 – 6).
Per svolgerlo nel migliore dei modi, l’ingegnere visito vari manicomi in continente e all’estero. Poiché fra gli alienisti di fine secolo era opinione diffusa che per curare i malati di mente fosse necessario isolarli e raggrupparli in base alle tre grandi categorie di tranquilli/e, semiagitati/e detti anche epilettici e sadici, e agitati/e, tra le diverse tipologie esaminate l’ingegnere scelse per il suo progetto quella “a villaggio”, cioè a padiglioni staccati, che ricalcava il modello canonico dei manicomi europei[7] (fig. 7).
Il manicomio di Villa Clara avrebbe dovuto dunque essere articolato in 24 edifici, dove, ad un massimo di 500 degenti, si sarebbero potute applicare le più avanzate terapie psichiatriche, che poi nella realtà le cartelle cliniche rivelano essere non molto diverse da quelle del passato. Risulta infatti dai fascicoli personali che esse consistevano, principalmente, in applicazioni di sanguisughe, in drastiche purghe, in bagni freddi e nel procurare al paziente dei vescicanti, in genere sulla nuca. Tutti sistemi mirati ad indebolire il paziente, esattamente come la terapia insulinica, di poco successiva, che procurava uno stato di inerzia dovuto al calo glicemico. Solo ad alcuni dei cosiddetti tranquilli si riservava una terapia contraria, tesa a migliorarne le condizioni fisiche generali con l’aggiunta di una o due uova o di un bicchiere di latte alla razione di cibo quotidiana.
Nella progettazione degli edifici l’ing. Palomba non concesse all’estetica alcun eccesso, anche se – come afferma nella relazione – si preoccupò che i padiglioni avessero una certa gaiezza, molto adatta per stornare dalla mente dei matti il pensiero della loro forzata reclusione. Allo stesso modo si dichiarò convinto che il bellissimo cancello (che oggi chiude il parco di Monte Claro) facesse sì che i nuovi introdotti abbiano l’illusione di esser condotti in un locale di delizie, piuttosto che in una casa di salute.
Purtroppo il progetto dell’ing. Palomba si rivelò utopistico nel suo complesso. In realtà, infatti, soprattutto a causa di difficoltà finanziarie, tra il 1905 e il 1911 la Provincia realizzo solo dieci dei padiglioni progettati (Fig. 8 – 9), e, di questi dieci, solamente sei furono destinati al ricovero degli ammalati. Ancora una volta gli spazi risultarono presto sovraffollati, arrivando in particolari momenti a contenere anche 1800 degenti.
Nel tempo, i singoli caseggiati e l’intero complesso ospedaliero furono oggetto di varie modifiche e ristrutturazioni.
Le trasformazioni più notevoli si registrarono tra il ’45 e il ’47, per una serie di interventi attuati dalla Provincia a risanamento dei danni derivati dalle incursioni aeree del periodo bellico[8].
Notevole fu l’impegno che l’allora direttore Diego De Caro pose nell’opera di rinnovamento, ma, per quanto distante dagli antichi cameroni del Sant’Antonio Abate, l’ospedale resto un mondo chiuso in se stesso, sino a quando la legge n. 180 del 1978, la famosa legge voluta da Franco Basaglia, dichiarò il fallimento della cosiddetta psichiatria asilare e quindi impose la soppressione dei manicomi.
A causa di intoppi burocratici e della mancanza di volontà politica, Villa Clara continuò a funzionare per altri vent’anni ed è stato solo nel 1998 che le ultime “genti” di Monte Claro sono riuscite a migrare verso altre, migliori destinazioni.
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