Atti del convegno Le Genti di Monte Claro • Dal Neolitico al Ventunesimo secolo
Donatella Salvi
Testimonianze romane sulla via di Stelladas
Giovanni Spano, nella sua Guida alla città di Cagliari, pubblicata nel 1861, sosteneva che Pirri avesse formato “una delle parti dell’antica Karalis”. Lo deduceva dai tanti frammenti di colonne in marmo che erano sparse dentro la “stessa villa e nel piazzale della parrocchia”. Anche la chiesa di San Nicolò, della quale ricorda le pareti che ancora si conservavano nella suddivisione in due navate, aveva “colonne prese da antichi edifizi” [1]. Dalla stessa località secondo lo Spano, furono trasportate a Cagliari le colonne in granito che affiancano l’ingresso al Regio Arsenale, oggi Cittadella dei Musei [2] (fig.1)
Avanzi di costruzioni -“di antiche fabbriche”-, frammenti ceramici, tegole a margini rialzati, pietre scavate per ricavarne canalizzazioni, un frammento di mosaico grossolano, interpretato come il fondo di una vasca, furono messi in luce, in occasioni diverse, alcuni più tardi nella regione di Nostra Signora d’Itria [3].
Notizie ricavate dall’archivio storico della Soprintendenza archeologica ricordano nel 1919 il ritrovamento di una brocca che si suppose piena di monete [4]. Nel 1928, in occasione della bonifica dello stagno fra Pirri e Monserrato, fu invece effettivamente ritrovata un’urna con coperchio contenente monete in bronzo in gran parte ossidate, mentre era in corso lo scavo di un canale [5]. Al Taramelli fu consegnato qualche giorno dopo un frammento di anfora contenente “un impasto di piccole monete in bronzo irriconoscibili e percio senza valore” [6]. Un capitello di tipologia non precisata è segnalato nel 1953 come proveniente da un terreno privato, durante lavori agricoli [7].
Se numerose sono le notizie, quasi nulla è rimasto di quel ricco patrimonio architettonico, né di quanto nell’Ottocento si poteva vedere percorrendo la strada di Stelladas, che univa Cagliari a Pirri. Percorso lungo che iniziava già, nella carta dello Spano, dopo i Giardini pubblici, lungo Via Giardini, verso l’attuale Via Riva Villasanta. Ripercorreva, forse, una delle strade che in età romana si allontanavano dalla città e che erano segnate, lungo il percorso, da aree funerarie [8]. Tale assetto si coglie già in prossimità dell’attuale piazza Garibaldi o meglio fra la piazza ed il complesso di San Domenico, dove è stato trovato un sarcofago durante la realizzazione della Scuola Riva Villasanta [9], e più di recente, reimpiegati nelle murature, sono stati messi in luce due cippi funerari; sono inoltre emerse con lo scavo alcune sepolture a fossa nel braccio meridionale del chiostro [10]. Il primo segno della Via di Stelladas, cioè della strada che andava verso Pirri, è pero nell’ultimo tratto di Via Bacaredda: nel giardino di Giuseppe Millo, o nei possedimenti Calvi, lo Spano ricorda infatti il ritrovamento di un cippo a botte con due laterculi, uno dei quali portava la dedica di un Aurelius Fortinatus alla moglie Rufina, morta a 23 anni [11]. La localizzazione, che appariva alternativa, in realtà coincide, poiché la villa Calvi ed il giardino del conte di Pasqua – poi acquistato dal signor Giuseppe Millo o (o Muller), erano adiacenti [12].
L’iscrizione in questione non è stata rintracciata, per quanto nel complesso, in seguito unificato nella proprietà Cao, sono tuttora custoditi alcuni reperti archeologici iscritti. Fra questi è stato possibile riconoscere – ed appare di eccezionale interesse constatare che al di là di quanto si è finora creduto il manufatto non è andato perso – il cippo a botte a tre laterculi, con i nomi di Rusticelius Felix, di Helvius Rogatus e di un anonimo miles, citato nell’Ottocento dallo Spano come sostegno all’asse della ruota di un mulino nel quartiere di S. Avendrace [13] (fig. 2). La provenienza da un quartiere piuttosto distante e la composizione eterogenea dei reperti in quella che era la proprietà Calvi rende dubbia la provenienza sia delle altre iscrizioni – una commemorativa (o)rnavit su marmo, una su cippo lacunoso – uscu(?)/sua mat|ri fec(it), una su cippo orizzontale […]atius/ vixit annis/ XVIII […]paren|tes fecerunt/ (fi)lio dul(cissimo), una illeggibile su cippo ad ara – che dei due sarcofagi, uno con image clipeata e galli ed uno strigilato con fiaccole al centro, dei quali già Pesce ignorava la provenienza [14]; oltre a questi è presente anche un sarcofago a vasca liscia con maniglie, non preso in considerazione dal Pesce perché allora murato all’interno della casa.
Ad una certa distanza da qui, e già in corrispondenza dell’ultimo tratto dell’attuale Via Riva Villasanta, è stato individuato il contesto eneolitico di cultura Ozieri noto come villaggio di Terramaini, che costituisce il più antico insediamento umano di questa porzione di Cagliari [15]. Scavi condotti per la realizzazione di nuovi edifici, nel 1980, consentirono non solo di ampliare le conoscenze sul sito preistorico ma anche di individuare fra Via delle Cicale e Via dei Grilli i resti di un complesso romano, evidentemente di tipo abitativo, dotato di un’ampia e profonda cisterna [16].
Di dubbia origine e datazione sono invece i materiali architettonici, – alcune basi e rocchi di colonne in calcare di grandi dimensioni, – rinvenuti nel 1998 accatastati in un’area edificabile a poca distanza dal contesto precedente, in Via Bellavista (fig.3).
Il toponimo Stelladas, località verso la quale si dirige la strada, è pero in realtà relativo a una vasta area pianeggiante, posta fra le pendici del colle di San Michele, del colle di Monte Claro e Pirri (fig.4).
Lo Spano la individua come luogo di esecuzioni capitali e ne ricorda un oratorio con la cappella della Vergine e i resti di una polveriera [17]; molti decenni dopo Francesco Alziator evocherà la visione ottocentesca delle vigne e delle mandrie di buoi distese ai piedi del colle di San Michele per osservare che dove era la cappelletta della Vergine case, giardini e un motel non fanno più capire dove Cagliari finisce e dove inizia Pirri [18].
Ormai interamente urbanizzata è anche l’area compresa fra Pirri, a nord, il quartiere cagliaritano di Sant’Alenixedda a sud e la linea ferroviaria ad est, dove invece i ritrovamenti passati sono numerosi e sono costituiti per lo più da testimonianze epigrafiche che meritano perciò un esame distinto.
Il CIL X [19] comprende, come provenienti da Pirri, ben 19 testi epigrafici, in gran parte riportati dallo Spano [20]. Un numero consistente di questi era riutilizzato nella chiesa di San Nicolò, nelle murature o come base alle colonne: si tratta di CIL X, 7813, cippo dedicata a Egnatia [21], CIL X,7815 cippo a botte con iscrizione di Iulia lucundula [22], CIL X,7816 a luliae Ticeni, CIL X,7 817 cippo dedicato a Rutilia Xantippe [23], CÃL X, 7820 cippo frammentario [24]. Di questi, due, il CIL X,78l3 ed il CÃL X,7816, erano posti sotto altrettante colonne; uno solo, il CIL X,7815, risulta recuperato e depositato al museo, acquisito con il numero di inventario 5573 [25].
Tre iscrizioni provengono dalla vigna degli Scolopi: CIL X,7810, cippo incompleto che secondo i redattori del Corpus era accompagnato da molti altri cippi di grandi dimensioni, CIL X,78l2 dedicato da Cornelius Hilarus alla moglie [26], CIL X,7814 a ricordo di Isias [27]. Non è specificata la vigna, invece, fra Cagliari e Pirri, da cui proviene l’iscrizione CIL X,7691 posta da Licinia Crescentilla al marito Pisidis Montanus [28], mentre fu ritrovato nella vigna di Santa Teresa il cippo a botte CIL X,7809 nel quale Agbadeus dedica al figlio Burce, alla nipotina Benustilla e alla nuora Benusta [29].
Secondo i redattori del Corpus, era già custodito nella parrocchia di Pirri, – ma a detta dello Spano a vista per lungo tempo lungo la Via San Benedetto a Cagliari, – il sarcofago di Iulius Castricius, CIL X,7808, poi trasferito a Genova [30], così come l’iscrizione dedicata a Cl. Atticilla, CIL X, 7911, già nota nel Settecento a G.Dani e quindi al Muratori.
Più genericamente a Pirri erano l’iscrizione CIL X,7818 che ricorda Secundinus Caius ed il cippo a due laterculi iscritti CIL X,78l9, dedicato, nel primo caso, a Victoria Caesilla dal padre Victorianus e nel secondo dallo stesso Victorianus a Cornelius Agili [31]. A Pauli Pirri, oggi Monserrato [32], nel fondo Cau si trovava, a ricordo di Cn Scribonius e di Claudius Pudens, il cippo a botte, CIL X,7823, con acroteri laterali, suddiviso in tre laterculi sovrastati da timpano triangolare contenente un disco umbonato [33], ora al Museo archeologico nazionale di Cagliari.
Alcuni cippi a botte sono stati segnalati nell’Ottocento in case private, come CIL X,7821 di Antonia Urbana e di un Felix e CIL X,7822, anche questo proveniente da Pauli Pirri, edito per la prima volta dal Fiorelli [34], contenente la dedica a Marzialis Ca(saris) nostri) s(ervus) da parte del figlio M. Cocceius Marzialis. Gli ultimi due sono stati acquisiti al museo con i numeri di inventario 21274 e 21383.
È noto che sia i cippi ad ara – individuali, a sviluppo verticale, dotati di base modanata e di sommità arrotondata con pulvini laterali, – che i cippi a botte, di più grandi dimensioni, spesso con tre spazi per l’iscrizione, costituiscono segnacoli di sepolture a incinerazione, talvolta semplicemente sovrapponendosi, talvolta inglobando, nella base incavata, le urne che contengono i resti combusti dei defunti.
La datazione che spesso è fornita, per questi documenti, su base epigrafica – caratteri fisici del testo grafico e/o caratteri deducibili dal contenuto e dalle formule adottate, – conferma la cronologia del rituale dell’incinerazione indiretta che al momento sembra utilizzato nel cagliaritano fino alla seconda metà del II secolo d.C. [35]. Esso si affianca, per qualche tempo, al rituale dell’inumazione, – in fossa, in cupa, in sarcofago, – introdotto nel mondo latino intorno al I secolo d.C. sulla spinta di modelli orientali e poi gradualmente generalizzato anche sulla base della diffusione del cristianesimo.
L’analisi dei reperti ritrovati nelle campagne di Pirri mostra perciò una sorta di concentrazione proprio fra il I ed il III secolo. Alla concentrazione nel tempo corrisponde la concentrazione nello spazio, visto che seguendo le tracce della denominazione dei luoghi, è possibile stabilire che esse coincidono. È il Fiorelli, nel 1886, che, segnalando il ritrovamento, ancora una volta in occasione di lavori agricoli, di un nuovo cippo dedicato a Magnia Lucretia dal marito, chiarisce che la località Bingia Manna, in quel periodo di proprietà di Francesco Piludu, era appartenuta agli Scolopi e che la tradizione “vuole (vi) sorgesse una chiesa dedicata a San Nicolò” [36]. In pochi decenni – lo Spano ne ricorda i ruderi nel 1861, – non solo il ricordo della chiesa era affidato alla tradizione, ma addirittura nulla era più visibile: il sopralluogo effettuato dal Vivanet, sulla base della memoria delle numerose testimonianze registrate nel CIL X, non gli consentì di vedere che “qualche raro coccio di rozza stoviglia e poche ossa”, uniche testimonianze queste di resti scheletrici contenute nei resoconti dei ritrovamenti. Tale particolare è ulteriore avallo all’ipotesi di una necropoli prevalentemente a incinerazione; questa infatti comporta la raccolta nell’urna dei pochi resti sfuggiti alla combustione, mentre le inumazioni, con la possibile dispersione degli scheletri, avrebbero lasciato segni ben più evidenti sul terreno.
A tempi recenti, e di nuovo senza ulteriori elementi di contesto, si riferiscono gli ultimi ritrovamenti di iscrizioni avvenuti in un’area fra Cagliari e Pirri prima della sua urbanizzazione, cioè quello di un Hortensius e di un frammento iscritto da località non certa ma sempre di Pirri [37].
Altre osservazioni sono possibili: il gruppo sociale ricordato nelle iscrizioni doveva godere di un buon livello di vita e di un certo grado di istruzione: da una parte la realizzazione materiale dei cippi doveva costituire un qualche impegno economico, considerato che il calcare duro – tramezzario – non è disponibile nei terreni sedimentari di Pirri, ma doveva essere trasportato dalle cave cagliaritane già finito o almeno sbozzato per la lavorazione in loco e comunque doveva essere sagomato e rifinito da artigiani specializzati. Dall’altra la stesura dei testi a ricordo dei defunti significa che il gruppo stesso godeva di un buon grado di alfabetizzazione ed era in grado di leggere il ricordo scritto dei propri cari [38].
Nessun elemento pero consente di definire l’attività svolta dalle persone delle quali le iscrizioni ricordano i nomi, anche se gli elementi disponibili lasciano supporre una classe sociale media, in linea comunque con lo standard registrato nell’area cagliaritana, che vede insieme liberi, liberti e servi [39]. Vi è anzi di più: l’iscrizione su cippo a botte CIL X,7822, che è datata al tempo di Nerva (96-98 d.C.) [40], indica esplicitamente la condizione di servus Caesaris nostri di Martialis e quella di liberto del figlio Cocceius Martialis ed è servus imperiale anche Victorianus dell’iscrizione CIL X,7819, che dedica a Cornelius Agilis, confermando l’esistenza nella stessa località di fondi imperiali [41]. Poiché inoltre le carte catastali ottocentesche pongono in prossimità di Stelladas anche le proprietà terriere del Barone di Teulada [42], potrebbe riferirsi alla stessa area funeraria anche il cippo CIL X,7653 che ricorda Cornelianus Caes(arum servus) che dedica alla prima moglie Faustina, con la seconda moglie Tantilia alla figlia Prisca e alla stessa Tantilia, per essere infine ricordato alla sua morte all’età di 80 anni [43]. Databile nella seconda metà del Il sec. d.C., in periodi che vedono imperatori correggenti, il cippo, sagomato a botte e decorato alla sommità dei laterculi da timpani curvilinei e acroteri, è ora custodito presso l’area archeologica nota come Villa di Tigellio, a Cagliari [44]. Non compaiono, come si è visto, nelle iscrizioni ritrovate a Pirri le funzioni svolte in vita dai defunti, ma è stata avanzata poi l’ipotesi che Cl. Pudens dell’iscrizione CIL X,7823, fosse un tr(ierarchus) cioè un comandante militare di una nave o di un distaccamento di soldati [45].
Nel contesto così delineato appare perciò particolarmente significativa la base onoraria, di grandi dimensioni, che doveva sostenere la statua di Settimio Severo, – nel secondo anno di tribunicia potestate, cioè 199 d.C., – ritrovata nella vigna dei Gesuiti, fra Cagliari e Pirri, dove fu in seguito trasportata [46]. Essa potrebbe segnare il limite cagliaritano del fondo rimasto a lungo di proprietà imperiale, in un periodo in cui, proprio con Settimio Severo, si ebbe una netta divisione fra le proprietà imperiali private e quelle che l’imperatore gestiva per conto dello stato [47]. Un legame ancora più stretto può derivare dal fatto che Settimio Severo esercito in Sardegna, nel 173 [48], la questura e che a Cagliari, sotto Settimio Severo e Caracalla (198-209) svolgeva il ruolo di tabularius, Lucretius, liberto dei due Augusti, forse anche con la funzione di gestire il patrimonio imperiale [49].
Qualora questa ipotesi possa considerarsi fondata, anche l’abbondanza di materiale architettonico ancora visibile nell’Ottocento potrebbe essere attribuita a strutture di un certo rilievo connesse con la proprietà imperiale. La conformazione dei cippi di grandi dimensioni, che talvolta riproducono realisticamente una botte posta orizzontale, ha fatto ipotizzare che l’attività praticata nel fundus imperiale fosse proprio la coltivazione di vigne e la produzione del vino [50] che, come si deduce dalle denominazioni dei luoghi ancora nell’Ottocento – vigna di Santa Teresa, vigna degli Scolopi, vigna dei Gesuiti ecc., – è certamente coerente con la natura dei suoli sedimentari, particolarmente adatti a questo tipo di coltivazione; diversamente altri Autori, sulla base di analoghe iconografie funerarie, hanno considerato la botte dal punto di vista ideologico, come sinonimo di immortalità anche in contesti cristiani [51]. I dati disponibili sono comunque, per ora, certamente insufficienti a un miglior inquadramento del problema sui latifondi e sulla loro produzione, non necessariamente orientata verso la monocultura.
Al nuovo ambito culturale determinato dal cristianesimo portano infine alcuni documenti epigrafici che provengono dall’area del Castello di San Michele e di quella del suo versante est, in un contesto quindi distinto da quello di Stelladas, anche se ad esso vicino. Il primo fu trovato a San Michele e fu poi trasferito a Pirri e di lì al Museo di Cagliari. Si tratta dell’iscrizione lacunosa di Frontosus [52]; il secondo è segnalato nel 1896 da F.Vivanet che lo dice ritrovato in occasione di alcuni sterri operati nel castello: il testo, mutilo, si conclude, come forse il precedente, con la formula req[uievit i]n pace [53].
Provengono infine dalle pendici del colle – fra il castello di San Michele e Pirri, – due iscrizioni pubblicate nel 1969 da G.Sotgiu, proponendone solo la documentazione grafica, e successivamente da A.M.Corda [54].
Le due iscrizioni, già detenute da un privato, sono state di recente consegnate alla Soprintendenza archeologica. Si tratta del ricordo di Paula, che visse 80 anni e di quella a Sabbatius, che visse circa 30 anni e fu deposto – l’indicazione hic est positus è formula unica in Sardegna, – l’ottavo giorno delle calende di febbraio. Sono entrambe datate al V secolo (figg. 5 e 6).
La concordanza culturale e cronologica di questi materiali può far pensare a un’area cimiteriale, distinta dalla prima, sviluppatasi in età più tarda. Una frequentazione già dall’età romana sul colle di San Michele è attestata da attività di cava, con coltivazione di superficie, da una piccola cisterna e da pochi resti di ceramica sigillata [55]. È noto tuttavia che, in occasione della costruzione del castello, subito dopo il 1326, la famiglia Carroç fu autorizzata a prelevare materiale da costruzione dalle ormai fatiscenti strutture del complesso cagliaritano di San Saturnino [56]. È possibile, perciò, che anche i tituli funerari siano giunti a San Michele in tale circostanza. Solo il ritrovamento di sepolture ancora in situ potrebbe fornire soluzioni ad un problema che al momento resta aperto.
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