Scritture Le forme di comunicazione
5 Scritture americane autoctone
1. Pittografie del Nordamerica
Una terra ‘bambina’
L’immagine dell’America autoctona che ci viene comune mente trasmessa dal cinema è quella di un continente ricco di memoria, ma assai povero di mezzi coi quali fissarla, un regno dell’oralità primaria, in cui il patrimonio conoscitivo di ogni tribù era affidato a spccialivi del rituale (sciamani, stregoni) o alla memoria degli anziani.
L’apparente disinteresse mostrato dalle società indiane dinanzi alle ‘lettere parlanti’ giunte da Occidente era così totale che i colonizzatori, pur consapevoli della ricchezza di mezzi figurativi utilizzati dai nativi, definirono il Nordamerica un continente di ‘scritture ancora bambine’.
In realtà, quelle pittografie descrittivo-figurative, che sembravano avere assai poco a che vedere con una trascrizione del linguaggio, costituivano un vero e proprio deposito di sapere difuso.
Esse infatti occupavano una serie ben differenziata di supporti (rocce, pelli di animali, vestiti, abitazioni, supporti efiimeri come la sabbia e infine la carta importata dall’Europa) e se non avevano la presunta onnipotenza della scrittura ‘propriamente detta’, il complesso contenuto dei messaggi veicolati ne faceva un agile strumento comunicativo, atto ad integrarsi con tutti gli altri sistemi di segni di cui le culture indiane erano ricche (basti pensare al linguaggio dei segni gestuali e ai famosi segnali di fumo).
Pittografie e sillabari etnici
Il solo fatto che ogni etnia avesse proprie convenzioni grafiche e propri testi pittografici (ciò vale per i Dakota, i Cheyenne, gli Ojibwa, gli Oglala, i Navaho e molte altre) basta a far comprendere la singolarità culturale di ciascuna produzione, che diviene intellegibile solo se si adottano le specifiche categorie linguistiche.
I notissimi winter counts (‘conteggi degli inverni’, le pelli pittografate che raccontano anno per anno gli eventi della tribù), ad esempio, non possono essere considerati semplici calendari, in quanto spesso nelle pieghe delle pittografie erano trascritte sequenze di eventi essenziali per ricostniire la memoria storico-mitica ad uso di ciascun membro del gruppo.
Le popolazioni indiane, d’altra parte, si sono mostrare tutt’altro che inerti dinanzi alle nuove necessità comunicative resesi necessarie in seguito all’arrivo degli europei.
La questione relativa all’originalità delle pittografie eschimesi in uso nel secolo scorso, è destinata a restare insoluta per mancanza di prove documentarie definitive: sembra infatti poco convincente che una notazione così ricca e complessa si sia sviluppata quasi istantaneamente, subito dopo il contatto con i bianchi, mentre appare più probabile che le pittografie narrative siano stare standardizzate e ‘linearizzate’ proprio a seguito dell’incontro con la scrittura europea.
È invece ben documentato il diffondersi quasi epidemico di scritture indigene inventate sotto il diretto stimolo dell’alfabeto, ma che per lo più abbandonarono il modello espressivo pirrografico.
Si tratta di sistemi inventari da missionari, che vi impegnarono tutte le loro arti di “ingegneria linguistica” tentando di aderire il più possibile alla struttura fonetica delle lingue da trascrivere (come nel caso del sillabario Cree di James Evans, nel 1840), ma anche, e con non minore successo, dagli stessi indiani (come per il sistema Cherokee del capo Sequoya, nel 1823-24).
Nonostante il maggior numero di segni da apprendere (più di cinquanta), in moltissimi casi tali sistemi sono stati sillabici, perché una particolarità di molte lingue indiane d’America è quella di presentare sillabe di struttura semplice, del tipo consonante-vocale.
Questa è una circostanza che dovrebbe far riflettere quanti ritengono che il principio alfabetico sia un esito “naturale” nella scelta di una scrittura fonetica: fattori diversi da quello della massima economia linguistica e grafica concorrono a determinare una scelta che non ubbidisce solo a criteri tecnici, ma anche alla ricerca di un’identità nuova, che induce a respingere l’accettazione passiva del modello egemonico.
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