Scritture Le forme di comunicazione
5 Scritture americane autoctone
2. La scrittura in Mesoamerica
Culture indecifrate
Le culture dell’America centrale presentano ancora grandi problemi per chi cerca di ricostruirne la storia, ma è certo che in quel susseguirsi di grandi civiltà, negli altopiani dell’interno e sulle coste tropicali (dagli Olmechi a Teotihuacan, dai Maya ai Toltechi, dai Mixtechi agli Zapotechi sino agli Aztechi, lungo un periodo di circa tre millenni), ritroviamo sorprendenti linee di continuità proprio attraverso il patrimonio di immagini simboliche di cui erano imbevute l’arte e la vita rituale: le stesse che si sarebbero via via arricchite per trasformarsi in sistemi di scrittura sempre più complessi.
In Mesoamerica, infatti, scrittura e pittura (e scultura, e graffito) sono attività plastiche che è impossibile separare e che rinviano incessantemente l’una all’altra, identificandosi.
In nahuatl, la lingua parlata dagli Aztechi, il verbo icuiloa significava al tempo stesso ‘scrivere’ e ‘dipingere’, e tlacuilòquê erano chiamati i sapienti pittori-scrittori che realizzavano i testi pittogtafici che apparivano nei codici, sui murales, nei templi e su moltissimi oggetti d’uso.
La scrittura, l’immagine, il colore
La diversità di sviluppi ed evoluzioni testimoniate dai glifi (termine, preso in prestito dall’egittologia, con cui sono noti gli elementi delle scritture mesoamericane) ha spesso indotto gli studiosi a distinguere, ad esempio, la scrittura maya, ‘parzialmente fonetica’, dagli altri sistemi, definiti ‘pitto-ideografici’ o ‘misti’.
Ma queste definizioni tengono conto della disparità nei risultati della decifrazione (ritenuta più avanzata per la scrittura maya, ma ancora in fase embrionale per le tradizioni mixteca ed azteca) più che della scoperta di effettive differenze di funzionamento.
In tutti questi sistemi molto standardizzati, in realtà, l’interpretazione e la lettura di ciascun elemento mutano al mutare di particolari apparentemente poco significativi, come il colore (che è invece importantissimo); e inoltre ciascun elemento può assumere funzioni molto diverse, a seconda del contesto in cui appare, ed essere di volta in volta fonetico o logografico, e può persino trascrivere un’intera frase minima.
L’eredità dei conquistati
Oggi senza dubbio riconsideriamo con senso critico ricerche come quella del vescovo de Landa (sin troppo ansioso di scoprire un alfabeto dietro ai segni pittografìci maya) e rendiamo a svuotare di significato le testimonianze spesso fantasiose di quanti (francescani, gesuiti e domenicani) – fiduciosi nel potere comunicativo delle immagini o scettici dinanzi ad ogni forma di scrittura che non usasse letras y caracteres – giudicavano quei prodotti grafici.
Prodotti grafici che avrebbero dapprima barbaramente distrutto (lo stesso de Landa, nel 1562, promosse il rogo dei codici ‘diabolici’) e poi tentato di salvare in extremis, raccogliendo le testimonianze orali e ‘pittoriche’ di una cultura ormai destinata a trasformarsi attraverso la generale esperienza della colonizzazione e del ‘meticciato’.
Le pittografie ‘coloniali’ (realizzate cioè su impulso diretto o indiretto dei religiosi spagnoli e del governo), in parte grazie agli interessi e alle speranze di questi etnografi ante litteram, in parte come risposta indigena alle richieste di funzionari consci dell’importanza di stabilire una comunicazione con i nativi, continuarono a essere prodotte sino agli inizi del XVIII secolo.
Segno che, nella nuova cultura nata dallo scontro tra due civiltà, un tratto essenziale della parte perdente (la scelta dell’immagine come veicolo privilegiato di significazione) avrebbe mantenuto ancora a lungo la propria importanza, pur generando testi da usare come ‘prove’ nei tribunali dei vincitori o come doctrinas che diffondessero tra i nativi la nuova religione cattolica.
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